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Il divieto di assistenza finanziaria e l’applicabilità dell’art. 2358 c.c. alle cooperative
L’art. 2358 c.c. sancisce il divieto, per la società per azioni, direttamente o indirettamente, di accordare prestiti o di prestare...

L’art. 2358 c.c. sancisce il divieto, per la società per azioni, direttamente o indirettamente, di accordare prestiti o di prestare garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni: si tratta di un divieto di carattere generale, che può essere derogato solo rispettando le condizioni dettate dalla medesima norma. La violazione di tale obbligo è sanzionata dalla nullità. La ratio della norma è quella di vietare la c.d. assistenza finanziaria, sia nella forma del prestito che in quella della prestazione di garanzie, a favore di chiunque voglia acquistare o sottoscrivere le azioni della società medesima, nella volontà di vietare operazioni che possano determinare un’erosione anche potenziale del capitale sociale, nell’interesse dei creditori della società, a tutela dell’interesse dei soci contro rimborsi preferenziali di conferimenti ad alcuni di essi, e dell’interesse della società a contrastare l’uso da parte degli amministratori delle quote comprate, anche e soprattutto in sede assembleare.

L’importanza degli interessi tutelati, alla cui protezione la norma sul divieto di assistenza finanziaria è strumentale, porta a concludere che l’art. 2358 c.c. sia una norma di carattere imperativo. Invero, l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418, co. 1, c.c., è più amia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, dovendosi ricomprendere anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto, per cui ove il contratto venga stipulato, nonostante il divieto imposto dalla legge, è la stessa sua esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni ancora più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto. Da ciò consegue che l’art. 2358 cc, nella misura in cui vieta la stipulazione di determinate operazioni di assistenza finanziaria a tutela del preminente interesse alla tutela dell’integrità ed effettività del patrimonio netto nonché di quello dei creditori, può considerarsi come norma imperativa, e che tale carattere sia rimasto anche dopo le modifiche che, nel 2008, hanno introdotto alcune deroghe al divieto, dovendo ritenersi che, quando il collocamento di azioni avvenga, contro il divieto, nel mancato rispetto delle modalità e limiti previsti dalla legge, la sanzione sia quella della nullità, in quanto solo il rispetto di tali requisiti e limiti permette di superare il divieto.

L'art. 2358 c.c. è applicabile anche alle società cooperative, poiché gli interessi tutelati dalla disposizione risultano pregnanti anche nella disciplina delle società cooperative; segnatamente, lo scopo mutualistico non esclude che possano ritenersi vietate operazioni tali da mettere a rischio l'equilibrio del capitale sociale, la cui tutela è peraltro salvaguardata da norme specifiche, in materia di cooperative, che impongono la formazione di riserve, quali l'artt. 2454 quater e l'art. 32, co. 1, TUB per le banche popolari.

Affinché ricorra il collegamento negoziale, sono necessari sia un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra gli atti volti alla regolamentazione degli interessi di una o più parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia un requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti, pur manifestato in forma non espressa, di volere, non solo l'effetto tipico dei singoli atti in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.

Analogamente all'art. 83 TUB, anche l'art. 51 l.fall. richiamato in materia di liquidazione coatta amministrativa dall'art. 201 della medesima legge, sancisce il divieto di iniziare o proseguire, sui beni compresi nel fallimento, alcuna azione esecutiva o cautelare, laddove invece il disposto dell'art. 52 l.fall. disciplina il peculiare procedimento di accertamento di diritti patrimoniali nei confronti della massa, e stabilisce che ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V,  ovvero le norme che disciplinano l'accertamento del passivo. La ratio di tali norme è quella di devolvere al giudice della procedura l'accertamento delle poste di credito vantate nei confronti della procedura, nel rispetto della par condicio creditorum. Conseguentemente, tutte le domande che contengono una pretesa contro la massa, suscettibile quindi di tradursi in una diminuzione dell'attivo, mediante condanna della procedura al versamento di una somma di denaro o alla restituzione di beni, non possono essere proposte avanti al giudice ordinario e devono essere dichiarate improcedibili, anche qualora esse siano finalizzate ad ottenere l'accertamento di un diritto al fine di far valere il titolo, successivamente, in sede fallimentare, ovvero nell'ambito della procedura coatta.

Sulla base dell'art. 83 TUB, in deroga all'art. 56 l.fall., si ammette la compensazione solo nel caso in cui una delle parti abbia fatto valere i propri effetti prima dell'aperura della liquidazione coatta amministrativa. La ratio delle summenzionate norme è quella di consentire al creditore di vedere estinta la relativa obbligazione invocando un controcredito nei confronti della procedura, così da evitare di essere condannato a pagare interamente un debito per poi vedere la riscossione del controcredito sottoposta alle regole della falicidia fallimentare. Tuttavia, trattandosi di norme che derogano in maniera significativa alle norme generali, la disciplina della compensazione deve reputarsi del tutto eccezionale e di stretta interpretazione ed applicazione. Pertanto, la deroga alla disciplina generale è giustificata solo e nella misura in cui il debitore in bonis sia attinto dalla domanda di condanna della procedura, al fine di evitare di essere costretto a pagare integralmente un proprio debito nei confronti del fallimento, rischiando invece di trovare soddisfazione del proprio controcredito in moneta fallimentare. Ad ogni modo, la compensazione non può essere utilizzata come rimedio preventivo, che non sia diretto a paralizzare la pretesa di pagamento del soggetto fallito o in stato di liquidazione coatta, poiché ammettere tale soluzione significherebbe consentire al creditore del fallimento di eludere la disciplina generale della par condicio creditorum.

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Il titolare della quota pignorata è legittimato a impugnare la delibera invalida
Il diritto all’impugnazione della delibera assembleare spetta in maniera concorrente al custode della quota e al socio la cui quota...

Il diritto all’impugnazione della delibera assembleare spetta in maniera concorrente al custode della quota e al socio la cui quota sia stata sottoposta a pignoramento.

La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda e attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione da parte del convenuto. Contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotto dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori.

La conversione del credito di un socio in versamento in conto futuro aumento di capitale non necessita di una deliberazione assembleare, non essendo materia devoluta alla approvazione dei soci, bensì vertendosi in tema di fattispecie pattizia e necessitando dunque unicamente dell’accordo tra creditore e società, in persona del suo legale rappresentante, e non l’approvazione da parte della assemblea dei soci, che può solo prenderne atto. È dunque rimesso al socio titolare del credito la relativa decisione a cui deve seguire l’accettazione della società. L’adesione di quest’ultima a detta conversione può esser desunta da vari indicatori, tra cui ex latere societatis anche, in assenza di elementi di segno contrario, la collocazione della relativa posta nelle scritture contabili e la sua rappresentazione in bilancio o nelle situazioni patrimoniali.

Anche in corso di liquidazione i soci possono procedere al ripianamento delle perdite mediante riduzione del capitale e sua ricostituzione con apporto di finanza propria dei soci.

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Oggetto del contratto di cessione di partecipazioni
La cessione delle partecipazioni sociali è un atto di disposizione patrimoniale che ha per oggetto immediato la partecipazione sociale –...

La cessione delle partecipazioni sociali è un atto di disposizione patrimoniale che ha per oggetto immediato la partecipazione sociale – che esprime l’insieme dei diritti patrimoniali ed amministrativi che qualificano, secondo la tipica disciplina legale, lo status di socio – e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Da ciò discende che la differente consistenza dei beni patrimoniali della società non incide sull’oggetto del contratto, o sulla qualità della partecipazione, e la sopravvenienza di passività o la minusvalenza di cespiti attivi, per effetto dei quali il valore del patrimonio sociale risulti diminuito, non possono costituire di per sé soli un vizio rilevante ai sensi degli artt. 1490 ss. c.c. Resta salva l’ipotesi in cui il venditore abbia fornito all’acquirente delle specifiche garanzie contrattuali: in questo caso, tuttavia, l’azione di risoluzione e/o di riduzione del prezzo non rinviene il suo fondamento direttamente nella normativa legale in materia di garanzia per vizi prevista dagli artt. 1490 ss. c.c., ma esclusivamente nella clausola negoziale con cui è stata prestata la c.d. garanzia convenzionale.

L’art. 1304, co. 1, c.c. prevede che la transazione conclusa dal creditore con uno dei condebitori solidali non produce effetto nei confronti degli altri, a meno che questi non dichiarino di volerne profittare. Tale norma si riferisce alla transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, e non la sola quota del condebitore solidale con cui è stipulata, giacché è la comunanza dell’oggetto della transazione stessa a consentire che gli altri condebitori solidali, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione, possano dichiarare di volerne profittare, in deroga al principio per cui il contratto produce effetti soltanto tra le parti (art. 1372 c.c.). Per converso, laddove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto non già l’intero debito ma solo ed esclusivamente la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto soltanto se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.

L’azione di arricchimento non può essere proposta laddove l’attore disponga di una diversa azione fondata sul contratto, sulla legge o su clausole generali e questa sia stata rigettata per prescrizione o per decadenza oppure per mancanza di prova del pregiudizio subito o infine per nullità del contratto derivante da contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.

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Nullità dei negozi contratti in violazione del disposto dell’art. 2358 c.c.
L’art. 2358 c.c., come modificato dal d.lgs. n. 142 del 2008, pur consentendo il prestito per l’acquisto di azioni proprie...

L'art. 2358 c.c., come modificato dal d.lgs. n. 142 del 2008, pur consentendo il prestito per l'acquisto di azioni proprie in presenza di specifiche condizioni (quali l'autorizzazione dell'assemblea straordinaria e la predisposizione di una relazione illustrativa da parte degli amministratori), prevede ancora un divieto generale di tali operazioni di assistenza finanziaria - volto a tutelare l'interesse di soci e creditori alla conservazione del patrimonio sociale - la cui violazione, trattandosi di norma imperativa di grado elevato, comporta la nullità ex art. 1418 c.c. non solo del finanziamento, ma anche dell'atto di acquisto, ove ne sia dimostrato, anche mediante presunzioni, il collegamento funzionale da chi intenda far valere la nullità dell'operazione nel suo complesso.

L’art. 2358 c.c. è applicabile alle società cooperative. Esso è dettato per le società per azioni, alla disciplina delle quali, per quanto compatibile, rimanda l’art. 2519 c.c. per integrare la disciplina di legge delle società cooperative. Si tratta di norma dettata a tutela del capitale sociale, nell’interesse della società, oltre che dei soci, e anche dei creditori, che fanno parte di quel più ampio pubblico al quale la pubblicazione nel registro delle imprese rende accessibile la delibera. Tale interesse è centrale anche nelle società cooperative. La loro natura mutualistica comporta infatti che il loro scopo sia fornire beni e servizi ai soci (ed eventualmente a non soci) a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Tale scopo si realizza però mediante una struttura imprenditoriale, più o meno complessa, che deve operare secondo criteri di economicità, razionalità e quindi in primo luogo con salvaguardia del capitale mediante il quale solamente lo scopo mutualistico può realizzarsi. Alla costituzione di un solido capitale sociale - che andrà poi mantenuto - sono poste a presidio norme che impongono la formazione di riserve (art. 2545 quater c.c. in generale; per le banche popolari, art. 32, co. 1, t.u.b.). Pertanto, certamente una disciplina che vieta (o meglio in concreto limita) le operazioni che possono mettere a repentaglio il capitale non è certo incompatibile con la società cooperativa. Lo scopo mutualistico da solo non basta a giustificare la messa in atto di operazioni in sé pericolose, tali da mettere a rischio l’equilibrio economico della struttura sociale.

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Sulla sospensione della deliberazione di esclusione del socio di s.r.l.
L’art. 2378, co. 3, c.c., applicabile anche alle società a responsabilità limitata in forza del richiamo contenuto nell’art. 2479 ter,...

L’art. 2378, co. 3, c.c., applicabile anche alle società a responsabilità limitata in forza del richiamo contenuto nell’art. 2479 ter, co. 4, c.c., configura una misura cautelare tipica, diretta a ottenere la sospensione dell’esecuzione della delibera assembleare impugnata, per la concessione della quale il giudice è tenuto a verificare la sussistenza del fumus boni juris e del periculum in mora, quest’ultimo da ravvisarsi, come precisato dall’art. 2378, co. 4, c.c., all’esito di una comparazione tra il pregiudizio che deriverebbe al ricorrente dall’esecuzione della delibera impugnata e quello che deriverebbe alla società dalla sospensione della delibera medesima.

La valutazione comparativa del pregiudizio che subirebbe il socio escluso dall’esecuzione della delibera e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell’esecuzione della deliberazione ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c. implica una comparazione di interessi di per sé autonoma rispetto all’apprezzamento del fumus, nel senso che, anche in presenza di fumus di fondatezza dell’impugnazione, laddove il pregiudizio della società convenuta risulti più grave di quello dell’impugnante, non dovrà essere accolta la richiesta cautelare di sospensione, la tutela della posizione dell’impugnante restando comunque affidata, in caso di irreversibilità dell’esecuzione della delibera, ai meccanismi risarcitori previsti dal sistema normativo, il quale nella materia in esame prevede altri casi in cui la tutela reale – rappresentata dall’annullamento della delibera – recede rispetto alla tutela risarcitoria.

L’esclusione del socio di s.r.l. è possibile solo nell’ipotesi - e all’esito del procedimento previsto per il caso - di renitenza del socio al versamento della quota di capitale da lui dovuta (ex art. 2466 c.c.), ovvero quando l’atto costitutivo lo consenta. Tuttavia, anche in tale secondo caso, per l’ovvia esigenza di consentire ai soci di evitare tale gravissima sanzione privata conoscendo preventivamente le condotte che potrebbero darvi causa, in ipotesi specifiche, espresse e tassative, che integrino, sotto il profilo contenutistico, una giusta causa di cessazione del vincolo sociale (ex art. 2473 bis c.c.).

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Denuncia di gravi irregolarità e gestione di operazioni in conflitto di interessi
L’art 2391 c.c. definisce una serie di fasi che devono essere seguite nel caso sussista un interesse proprio o di...

L’art 2391 c.c. definisce una serie di fasi che devono essere seguite nel caso sussista un interesse proprio o di terzi: in primo luogo, l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori di questa situazione di interesse per una determinata operazione; in secondo luogo, la notizia deve contenere la natura, i termini, l’origine e la portata del potenziale conflitto; in terzo luogo, la deliberazione del CdA deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.

I presupposti per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2409 c.c. sono: il compimento da parte degli amministratori, in violazione dei loro doveri, di gravi irregolarità nella gestione; il danno potenziale; l’attualità delle irregolarità. [Nel caso di specie il Tribunale ritiene sussistenti e attuali le gravi irregolarità richieste dalla norma, in ragione: a) dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi con riferimento alla stipulazione di contratti di locazione; b) dell’assenza di valutazione in merito alla convenienza per la società di stipulare nuovamente i contratti con parti in conflitto di interessi, nonché dei forti dubbi sulla congruità dei nuovi canoni di locazione; c) dell'assenza di qualsivoglia concreta iniziativa da parte degli amministratori indipendenti per tutelare il patrimonio della società per gli ingenti danni subiti a causa di decenni di canoni notevolmente al di sotto dei valori di mercato.]

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Azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di s.r.l.: profili sostanziali e processuali
L’art. 2476, co. 3, c.c., ai sensi del quale l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun...

L’art. 2476, co. 3, c.c., ai sensi del quale l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun socio, configura una forma di sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.), dal momento che con il rimedio in oggetto il socio fa valere in nome proprio il diritto della società alla reintegrazione, per equivalente monetario, del pregiudizio al proprio patrimonio, derivato dalla violazione dei doveri di corretta e prudente gestione che, per legge e per statuto, gravano sull’amministratore in forza del rapporto di preposizione organica (di fonte contrattuale) fra quest’ultimo e la società. La disposizione di cui al citato art. 2476, co. 3, c.c., nella parte in cui contempla la legittimazione del singolo socio ad agire in nome proprio e nell’interesse della società partecipata, è necessariamente di stretta interpretazione e non passibile di estensione in via analogica.

Ciascun socio che eserciti l’azione di responsabilità ex art. 2476, co. 3, c.c., in veste di sostituto processuale della società ex art. 81 c.p.c., ha legittimazione ad agire anche per fatti antecedenti all’acquisizione dello status socii, purché tale qualifica sia posseduta al momento della proposizione della domanda.

I patti parasociali sono convenzioni con cui i soci o alcuni di essi attuano un regolamento di rapporti - non opponibile alla società - difforme o complementare rispetto a quello previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto della società stessa. Per loro natura, i patti parasociali hanno efficacia solo obbligatoria tra gli aderenti al patto stesso e non sono quindi opponibili né ai soci non aderenti, né alla società, né ai terzi, compresi in particolare i soggetti che acquistano le azioni dai cc.dd. parasoci.

Il patto con il quale i soci di una s.r.l. si impegnino nei confronti di un terzo, socio uscente ed ex amministratore unico della società, a non deliberare l’azione sociale di responsabilità nei confronti dello stesso, abdicando all’esercizio del diritto di voto pur in presenza dei presupposti dell’indicata azione, è affetto da nullità, in quanto il contenuto della pattuizione realizza un conflitto d’interessi tra la società e i soci fattisi portatori dell’interesse del terzo e integra una condotta contraria alle finalità inderogabilmente imposte dal modello legale di società, non potendo i soci, non solo esercitare, ma neanche vincolarsi negozialmente a esercitare il diritto di voto in contrasto con l’interesse della società, a nulla rilevando che il patto in questione riguardi tutti i soci della società, né che la compagine sociale sia limitata a due soci aventi tra loro convergenti interessi.

Nelle società a responsabilità limitata, tanto la rinuncia all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori quanto la transazione della predetta azione, oltre a dover essere deliberate espressamente dalla maggioranza qualificata prevista per legge, non possono essere desunte da espressioni generiche contenute in verbali aventi altro oggetto, o, ancora, da fatti concludenti. La ratifica ex post da parte dell’assemblea degli atti compiuti dagli amministratori può liberare questi ultimi dalle loro responsabilità verso la società solo qualora ricorrano le condizioni rispettivamente richieste dagli artt. 2393, co. 6, e 2476, co. 5, c.c.

In tema di azione di responsabilità sociale diretta a ottenere il risarcimento del danno derivato alla società da violazioni poste in essere dagli amministratori ex art. 2476 c.c., il termine prescrizionale è di cinque anni ex art. 2949 c.c. A norma dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L’impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione, è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli ostacoli di mero fatto o gli impedimenti soggettivi, per i quali il successivo art. 2941 c.c. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione della prescrizione. Vanno considerati impedimenti soggettivi od ostacoli di mero fatto l’ignoranza del fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull’esistenza di esso e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento.

L’azione sociale di responsabilità si configura come un’azione risarcitoria di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società e volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte, dolose o colpose, degli amministratori, poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo.

Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di mala gestio e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la causa petendi deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un’azione sociale di responsabilità quanto un’azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell’alea insita nell’attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali.

Affinché possa ritenersi integrata la responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori, è necessaria, oltre alla prova di concreti inadempimenti dell’organo gestorio ai doveri su di esso incombenti per legge e statuto, l’allegazione e la prova del danno in tal modo concretamente cagionato al patrimonio sociale e del nesso di causa che lega i primi al secondo, con la conseguenza che non risulta sufficiente, per l’accoglimento della domanda, l’indicazione generica di irregolarità contabili e amministrative, in assenza di allegazione del concreto vulnus che sarebbe derivato all’integrità del patrimonio della società.

La scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è mai di per sé sola (salvo che non denoti addirittura la deliberata intenzione dell’amministratore di nuocere all’interesse della società) suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l’impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell’opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale; mentre, viceversa, è solo l’eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società. Il giudizio sulla diligenza non può, dunque, mai investire le scelte di gestione degli amministratori, ma tutt’al più il modo in cui esse sono state compiute. Tale giudizio – in ordine al grado di diligenza che la cura di un determinato affare avrebbe normalmente richiesto, in rapporto a quello in concreto impiegato dall’amministratore convenuto in giudizio dalla società – costituisce una tipica valutazione di merito, come tale non sindacabile in cassazione se non per eventuali vizi di motivazione.

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Il ricorso ex art. 700 c.p.c. La condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c.
Per i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., il requisito della strumentalità rispetto al merito si realizza mediante la portata...

Per i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., il requisito della strumentalità rispetto al merito si realizza mediante la portata interinale e tendenzialmente provvisoria degli effetti del provvedimento cautelare, caratterizzata dall’anticipazione degli effetti propri del provvedimento di cui vuole assicurare la fruttuosità e che, al momento della sua pronuncia, dà luogo alla caducazione del provvedimento anticipatorio. Nel ricorso devono essere specificati il petitum mediato e la causa petendi, ma non anche le analitiche conclusioni che integrano il petitum immediato del giudizio di merito: la mancata indicazione nel ricorso cautelare di tali elementi ne comporta l’inammissibilità, sempre che dal tenore dello stesso non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito. In altre parole, il ricorso contenente una domanda cautelare proposta prima dell’inizio della causa di merito deve contenere l’esatta indicazione di quest’ultima o, almeno, deve consentirne l’individuazione in modo certo. L’esigenza di individuare nel ricorso cautelare gli elementi costitutivi dell’instauranda azione di merito consente di verificare la competenza del giudice adito in sede cautelare e serve per capire se il provvedimento cautelare richiesto sia effettivamente anticipatorio. Inoltre, è necessaria anche per tutelare il soggetto destinatario passivo del provvedimento cautelare anticipatorio, consentendogli di instaurare il corrispondente e strumentale giudizio di merito volto a far rimuovere gli effetti del provvedimento cautelare emesso e/o a far rigettare anche nel merito la domanda di controparte già virtualmente formulata nello stesso ricorso.

La ricorrenza del requisito del periculum in mora, che, secondo il dettato dell’art. 700 c.p.c., deve ricorrere in aggiunta a quello del fumus boni iuris, va esclusa allorquando la parte abbia fatto trascorrere un apprezzabile lasso di tempo tra il fatto lesivo del suo diritto e la proposizione del ricorso.

La necessità di una comunicazione periodica da parte dell’amministratore risulta determinata dall’esigenza di consentire all’accomandante l’esercizio del potere di controllo e di critica sull’operato del socio accomandatario e consente, in mancanza di impugnazione del bilancio da parte dell’accomandante, di ritenere consolidato l’esercizio.

La condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa e a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi, con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione.

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Efficacia dell’ordine di rilascio contenuto in una pronuncia di rilascio di immobile
L’ordine di rilascio contenuto in una sentenza di condanna al rilascio di un immobile spiega efficacia nei confronti non solo...

L'ordine di rilascio contenuto in una sentenza di condanna al rilascio di un immobile spiega efficacia nei confronti non solo del destinatario della relativa statuizione, ma anche di chiunque si trovi a detenere il bene nel momento in cui la sentenza stessa venga coattivamente eseguita, non potendo l'ordine de quo venir contrastato in forza di un eventuale titolo giustificativo della disponibilità del bene in contestazione diverso da quello preso in esame dalla pronuncia giurisdizionale.

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Irrilevanza ai fini della responsabilità dell’amministatore dell’attribuzione di un incarico a terzi per la tenuta della contabilità
Quando l’azione di responsabilità verso l’amministratore è azionata dalla curatela fallimentare, sono esercitate cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità, avente...

Quando l’azione di responsabilità verso l’amministratore è azionata dalla curatela fallimentare, sono esercitate cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità, avente natura contrattuale, sia l’azione dei creditori sociali il cui credito risarcitorio si fonda su titolo di responsabilità extracontrattuale, con tutte le conseguenze in ordine al differenziato regime dell’onere di allegazione e prova. La procedura dovrà, pertanto, allegare l’inadempimento degli obblighi gestori in capo all’amministratore, primo tra tutti l’obbligo di conservazione del patrimonio sociale, nonché allegare e provare il danno ed il nesso causale rispetto all’inadempimento; mentre l’amministratore convenuto dovrà allegare e provare di avere adempiuto agli obblighi conservativi del patrimonio della società.

L’irregolare e disordinata tenuta della contabilità integra una violazione dei doveri dell’amministratore e il conferimento di incarico professionale a un soggetto terzo non elide la responsabilità in capo all’amministratore.

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