Le responsabilità contrattuale ed extracontrattuale hanno causa petendi e petitum diversi, giacché entrambe hanno riguardo a diritti eterodeterminati, per l’individuazione dei quali è indispensabile il riferimento ai relativi fatti costitutivi, che divergono sensibilmente tra loro e identificano due distinte identità.
Il principio iura novit curia comporta la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Esso tuttavia non consente al giudice di pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato.
In tema di esercizio dei diritti inerenti alla qualità di socio di una società di capitali, nel caso di quota indivisa in comproprietà tra più soggetti, l'art. 2468, co. 5, c.c. prevede che i diritti devono essere esercitati da un rappresentante comune. Tale disposizione detta un'ipotesi di rappresentanza necessaria, i cui poteri sono esclusivamente attribuiti al soggetto designato secondo le modalità prescritte dagli artt. 1105 e 1106 c.c., con conseguente preclusione, per i partecipanti alla comunione, del concorrente esercizio dei diritti, da intendersi come l'insieme di tutti i diritti sociali, siano essi patrimoniali, amministrativi o processuali. Corollario, questo, del principio di indivisibilità delle quote e delle azioni di cui all'art. 2347 c.c., norma che nel conferire alla partecipazione azionaria il carattere della indivisibilità, ha considerato indispensabile, in relazione alle esigenze peculiari della organizzazione societaria e alla natura del bene in comunione, la unitarietà dell'esercizio dei diritti, impedendone, quanto meno nei rapporti esterni, il godimento e l'amministrazione in forma individuale; e ciò al fine, da un lato, di evitare che contrasti interni si riflettano sulle attività assembleari e, dall'altro, di garantire certezza e stabilità delle deliberazioni assunte, correttamente approvate.
L’art. 2386, co. 4, c.c., che recepisce la clausola simul stabunt simul cadent, introduce la regola generale secondo cui gli amministratori superstiti restano in carica, in regime di prorogatio di poteri, tanto da essere tenuti alla convocazione d’urgenza dell’assemblea per la nomina del nuovo consiglio e l’eccezione che può essere prevista nello statuto, ossia il subentro del collegio sindacale, non soltanto nel potere di convocazione dell’assemblea, ma anche nel compimento di atti di ordinaria amministrazione. Pertanto, l’amministratore decaduto per effetto della simul stabunt simul cadent, se non è diversamente previsto nello statuto, deve ritenersi in carica fino all’avvenuta nomina del nuovo organo amministrativo e conserva – non nell’interesse proprio, ma nell’interesse alla legalità della società – la legittimazione ex art. 2377 c.c. a chiedere l’annullamento della deliberazione assembleare, se affetta da vizi che inficino l’evento della nomina del nuovo organo amministrativo.
L’applicazione della clausola simul stabunt simul cadent comporta un’anticipazione della scadenza naturale dell’intero consiglio, per effetto della cessazione di uno dei consiglieri. Tale clausola implica, dal lato dell’amministratore, l’accettazione del rischio di cessazione anticipata e involontaria dalla carica, che non equivale né in fatto, né sul piano delle conseguenze giuridiche, a una revoca dell’incarico.
La clausola statutaria simul stabunt simul cadent prevede e determina una causa naturale di cessazione dalla carica di amministratore in base alla quale, a seguito delle dimissioni anche di un solo membro dell’organo gestorio, si determina l’immediata decadenza dell’intero CdA, ma l’esercizio della clausola deve sempre essere valutato alla luce del principio generale di buona fede, al fine di armonizzarne il corretto ambito di operatività. Infatti, tale clausola – di per sé lecita e legittima – non deve finire per essere utilizzata in modo strumentale e improprio, al fine di ottenere una revoca anticipata di uno degli amministratori in carica, senza che ricorrano quelle congrue motivazioni e quelle conseguenze onerose previste dall’art. 2383 c.c.
L’uso indiretto delle dimissioni, al fine di innescare l’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, non può avere maggiori effetti di una revoca senza giusta causa e non comporta, pertanto. l’invalidità della deliberazione di nomina del nuovo organo amministrativo, ma la semplice pretesa dell’amministratore, indirettamente revocato senza giusta causa, a pretendere l’indennizzo ex art. 2383 c.c.
L’onere di provare l’uso strumentale della clausola simul stabunt simul cadent ricade sull’amministratore decaduto e non può ritenersi soddisfatto per l’assenza di propri comportamenti negligenti o comunque l’assenza di situazioni integranti giusta causa di revoca. Incombe dunque sull’attore la prova della esclusiva finalizzazione della clausola alla sua estromissione dal collegio degli amministratori per il conseguimento di interessi extrasociali o di un gruppo della compagine sociale e quindi l’ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo in assenza di giusta causa.
I prelievi dal conto corrente della società effettuati per motivi personali da parte dell'amministratore costituiscono atti illeciti che comportano un'ingiusta diminuzione patrimoniale che è qualificabile come danno risarcibile soltanto a seguito di un accertamento d’illiceità compiuto nell’ambito di un’azione di responsabilità sociale (art. 2392 c.c. per le s.p.a. e art. 2476 c.c. per le s.r.l.) e non sono qualificabili come pagamenti indebiti, ripetibili ai sensi dell’art. 2033 c.c., poiché tale norma presuppone l’avvenuta esecuzione di un pagamento non dovuto per mancanza di un rapporto obbligatorio fra il solvens e l’accipiens, il che può verificarsi quando il solvens erroneamente ritiene di dover adempiere a un’obbligazione che lo vincola, oppure quando tale obbligazione sia venuta meno a seguito di declaratoria di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione del negozio o contratto posto a base del rapporto in precedenza intercorso fra le parti
L’azione generale di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato avrebbe potuto esercitare un’azione tipica, quale quella di responsabilità ex art. 2476 c.c., e questa si è prescritta.
Attiene a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c., la natura pubblicistica della cosa giudicata sostanziale, in quanto prevista da norme imperative di ordine pubblico, che la sottraggono a ogni derogabilità pattizia, precludendo qualsiasi possibilità di adottare una determinazione contraria al giudicato formatosi in favore di una delle parti.
Il giudicato formatosi su una pronuncia di annullamento (o nullità) di una delibera sociale ha effetto rispetto a tutti i soggetti coinvolti dall’azione sociale; infatti, poiché la deliberazione dell’assemblea è un atto riconducibile a un contratto associativo, come nel momento fisiologico ha effetto per tutta la struttura societaria (e quindi per tutta la compagine sociale, anche per l’eventuale minoranza che avesse votato contro quella specifica delibera), allo stesso modo, nel momento patologico, l’accertamento della sua eventuale invalidità produce effetti nei confronti di tutta la società e a tali effetti non può derogarsi se non sulla base di un accordo tra tutte le parti direttamente o indirettamente coinvolte. È quindi nulla la delibera che si proponga di rimuovere gli effetti del giudicato adottata in danno di una parte della compagine sociale, essendo il giudicato posto a tutela non soltanto del o dei singoli soci coinvolti nel contenzioso, ma di tutta la società e anche dei terzi.
Il giudice non può entrare nel merito di scelte che competono solo agli organi sociali, in quanto le concrete modalità di esecuzione del giudicato sono rimesse alla discrezionalità dell’organo amministrativo e all’assemblea dei soci; tuttavia, la parte vittoriosa del giudizio ha diritto a che si provveda in modo legittimo e conforme alle regole che presiedono all’azione dell’organizzazione (nel caso di specie, il Tribunale, in accoglimento della domanda attorea, ha condannato la società convenuta a iscrivere correttamente il dispositivo del lodo passato in giudicato presso il registro delle imprese).
Grava sull’attore che esercita l’azione di responsabilità sociale l’onere di allegare le condotte inadempienti dell’amministratore, di provare in modo specifico i danni che ciascuna di tali condotte ha prodotto alla società e il nesso di causalità fra tali condotte e i danni conseguenti.
Tra le prove atipiche, ossia quelle non ricomprese nel catalogo dei mezzi di prova specificamente regolati dalla legge, vanno ricomprese anche le dichiarazioni scritte provenienti da persone che potrebbero essere assunte come testi. La loro atipicità dipende dalla modalità con cui la prova viene acquisita al giudizio, non essendo la scrittura attribuita a terzi annoverata dall’attuale codice civile tra le prove; pertanto, non essendo assimilabile alla scrittura privata, il suo contenuto può essere contestato con qualsiasi mezzo di prova. Le dichiarazioni a contenuto testimoniale comprese in detti documenti, in difetto di contestazione ad opera della parte contro cui sono prodotte e in concorso con altri elementi, possono essere liberamente apprezzate nel loro valore indiziario dal giudice e concorrere alla formazione del suo convincimento. Tuttavia, le prove devono di norma raccogliersi nel processo nel contraddittorio delle parti e con le garanzie derivanti dalla responsabilità penale connessa alla falsa testimonianza, sicché l'utilizzazione di fonti probatorie estranee al processo e con mero valore indiziario non può prevalere sulle richieste di prove testimoniali da acquisire nel processo.
Ai sensi degli artt. 652 e 654 c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche quando l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e, cioè, quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, co. 2, c.p.p.
Atteso il regime di forma imposto per la transazione (forma scritta ad substantiam nei casi previsti dall’art. 1350, n. 12, c.c. e ad probationem negli altri ex art. 1967 c.c.), qualora siano pacifici tra le parti la stipula di una transazione e il suo contenuto, il giudice deve tenerne conto ai fini della decisione, a nulla rilevando la mancata produzione di un atto sottoscritto dai contraenti idoneo a documentare la conclusione dell'accordo: la specificità dei termini di un accordo transattivo non costituisce, infatti, requisito essenziale per la validità della transazione, se dal contesto della convenzione sia dato desumere la sussistenza di dazioni e concessioni che le parti si siano reciprocamente fatte allo scopo di porre fine ad una lite già cominciata o di prevenire una lite che può sorgere fra loro.
Gli elementi integranti la fattispecie di cui all’art. 2475 ter c.c. debbono essere interpretati nel senso che, affinché ricorra la situazione di conflitto di interessi, è necessario un rapporto di incompatibilità tra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante (o di un terzo che egli a sua volta rappresenti) e tale rapporto – da riscontrare non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento specifico al singolo atto, e che costituisce causa di annullabilità per vizio della volontà negoziale (sempre che detta situazione sia conosciuta o conoscibile dall’altro contraente) – è ravvisabile rispetto al contratto le cui intrinseche caratteristiche consentano l’utile di un soggetto solo passando attraverso il sacrificio dell’altro.
L’art. 2475 ter c.c. presuppone che l’amministratore, portatore di un interesse in conflitto con la società, abbia avuto la possibilità di influire sul contenuto negoziale dell’atto. Al contrario, ove egli si sia per ipotesi limitato a recepire all’interno del contenuto negoziale la volontà dei soci cristallizzatasi in una decisione della società, verrebbe meno la ratio che giustifica l’applicazione della norma: tale soluzione appare coerente con la norma di ordine generale di cui all’art. 1395 c.c., che esclude l’annullabilità del contratto con sé stesso in caso di predeterminazione del contenuto del contratto da parte dello stesso rappresentato.
L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società parte del contratto che si assume viziato e il suo amministratore non può farsi discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società – che sostiene di aver stipulato il contratto contro la propria volontà – e il suo amministratore e della riconoscibilità della stessa da parte dell’altro contraente.
Il rapporto dell'amministratore con la società è naturalmente oneroso, benché sia legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell'incarico di amministratore. Quanto alla determinazione del compenso, se non vi provvede lo statuto, spetta all'assemblea dei soci. Nell'ipotesi di amministratore investiti di particolari cariche, peraltro, la retribuzione può essere stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale a pena di annullabilità della delibera. Il rapporto tra l'amministratore di una società di capitali e la società medesima va ricondotto nell'ambito di un rapporto professionale autonomo e, quindi, ad esso non si applica l'art. 36, co. 1, cost., che riguarda il diritto alla retribuzione in senso tecnico, poiché il diverso diritto al compenso professionale dell'amministratore, avendo natura disponibile, può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare. Pertanto, agli amministratori, a differenza dei lavoratori subordinati, non è riconosciuto il trattamento di fine rapporto. La società, però, può, autonomamente, prevedere la formazione di un trattamento di fine mandato, avente caratteristiche similari. Si tratta di un vero e proprio compenso aggiuntivo che viene erogato all’amministratore all’atto della cessazione del rapporto. A differenza di quanto accade per i dipendenti, la definizione del trattamento di fine mandato non è vincolata, ma è soggetta alla libera contrattazione delle parti, non dovendo essere legata ad alcun parametro, purché sia stabilita nel rispetto del vincolo della ragionevolezza e della congruità, ovvero della sua commisurazione alla realtà economica della società, ai suoi volumi di reddito e all’attività svolta dall’amministratore. La quota di trattamento di fine mandato deve essere deliberata dall’assemblea dei soci o all’atto della costituzione iniziale della società o, successivamente, sotto forma di delibera assembleare.
L’art. 2389 c.c. pone una competenza inderogabile in capo all’assemblea in relazione alla determinazione dei compensi spettanti agli amministratori di società di capitali: letta al contrario, la norma pone un limite esplicito, escludendo espressamente che detta determinazione possa avvenire da parte degli amministratori medesimi. Conseguentemente, traducendosi in una alterazione delle competenze esplicite determinate da norme imperative che regolano la distribuzione delle funzioni tra organi sociali, la deliberazione con la quale il consiglio di amministrazione procede alla determinazione e alla liquidazione dei compensi spettanti ai propri componenti risulta improduttiva di effetti nei confronti della società.
Il socio che impugni una delibera assembleare per violazione dello statuto ha l'onere di produrre il medesimo entro il termine decadenziale previsto dall'art. 183, co. 6, n. 2, c.p.c.; la decadenza è rilevabile d'ufficio e, in difetto di produzione, l'impugnazione deve essere rigettata.
L’abuso di maggioranza rappresenta un vizio idoneo a inficiare la delibera assembleare adottata quando essa non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché tesa al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure perché espressione di un’attività fraudolenta dei soci di maggioranza, preordinata a ledere i diritti di partecipazione e i diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli. L’elemento discretivo tra la legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario e l’abuso di detto principio è ravvisabile dalla ricorrenza di un superiore interesse sociale che rende giustificato il pregiudizio sopportato dalla minoranza. Grava sul socio impugnante l’onere di provare che alla base della decisione della maggioranza non vi fosse alcun interesse sociale e che alcun vantaggio per la società potesse derivarne.