La consulenza di parte è un atto difensivo, a prescindere dalla natura tecnica del documento stesso, sicché le censure che attengono al contenuto delle deduzioni dell'ausiliare del giudice, costituendo mere argomentazioni difensive, non incontrano barriera preclusiva alcuna, a differenza delle contestazioni che concernono il procedimento della consulenza tecnica che invece sono assoggettate alla disciplina delle nullità relative di cui all'art. 157, comma 2, c.p.c.
Le osservazioni critiche alle conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio possono essere svolte per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, in quanto è del tutto sufficiente al fine della corretta esplicazione del contradditorio la possibilità di controdedurre da parte della parte avversa nella sua memoria di replica, fatto salvo il potere del giudice di eventualmente rimettere la questione all'esame del CTU con le conseguenti statuizioni in merito all'imputazione delle relative spese.
Il diritto di informazione e di accesso alla documentazione sociale, espressamente riconosciuto ai soci di società a responsabilità limitata che non partecipano all'amministrazione dall'art. 2476 co 2 c.c., si configura quale manifestazione di un potere di controllo individuale in capo ai singoli soci, di per sé non subordinato ad alcuna dimostrazione di specifico interesse perché l'interesse è il controllo sulla gestione in sé; potere che si esplica in due direzioni: (i) diritto di avere informazione attraverso l'acquisizione di notizie dall'amministratore sullo svolgimento degli affari sociali; (ii) diritto di consultazione diretta della documentazione sociale. L'oggetto del controllo, sia con riferimento alle informazioni, sia con riferimento alla documentazione sociale, ha uno spettro ampio. Il perimetro del potere di indagine conoscitiva del socio che non partecipa alla gestione nella S.r.l. si può dire che abbia ad oggetto i documenti e/o le informazioni di cui l'organo amministrativo dispone per una corretta gestione della società, non ravvisandosi nella norma alcuna limitazione se non che l'esercizio del diritto deve uniformarsi al rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Consegue che possono riconoscersi restrizioni al contenuto di tale potere del socio nelle ipotesi in cui sorgano esigenze di riservatezza della società che possono trovare fondamento, per esempio, in particolari rapporti di concorrenza con il socio o nell’assunzione in determinati contesti di posizioni contrapposte tra società e socio o nell’esigenza di tutela di segreti industriali.
Lo strumento tipico che l'ordinamento accorda al socio di minoranza qualificata della spa che sia titolare di una partecipazione pari almeno al 10% al fine di ottenere la revoca giudiziale dell'amministratore è quello previsto dall'art. 2409 c.c. e non se ne possono riconoscere altri. In particolare, al socio di minoranza di spa è dato dal legislatore lo strumento di tutela per conseguire la revoca giudiziale dell'amministratore previsto dall'art. 2409 c.c., si tratta, questa, di una precisa scelta del legislatore che non ha predisposto all'interno della disciplina della spa una norma analoga all'art. 2476 co. 3, c.c. la quale riconosce al socio di minoranza della srl, oltre all'azione di responsabilità dell'amministratore, anche l'azione di revoca dell'amministratore esperibile pure in via cautelare. Il rimedio cautelare tipico accordato al socio della srl dall’art 2476 comma 3 c.c.. non è estensibile alla spa, nemmeno nel quadro attuale che vede l’apertura della tutela ex art 2409 c.c. anche alle srl.. La ratio della diversa disciplina tra spa e srl sta nella diversità del tipo delle due società di capitali; da un lato nella più intensa base personale della srl, nel più stretto rapporto fra i suoi soci e la gestione sociale che giustifica l’attribuzione a ciascun socio (al pari di ciò che si riscontra nella società di persone, art 2259 u.c. c.c.) della facoltà di chiedere la revoca dell’organo gestorio oltre che la facoltà di agire, senza sbarramenti di partecipazione sociale, per far valere la responsabilità sociale dell’amministratore; dall’altro in una più marcata struttura organizzativa retta dal principio di maggioranza della spa, dove il potere di revoca dell'amministratore sta solo in capo alla assemblea ex artt. 2383 e 2393, co 5, c.c. e non al socio di minoranza il quale, se minoranza qualificata, può attivare lo strumento di controllo previsto dall'art. 2409 c.c..
Con riferimento ad una piattaforma che utilizza il sistema peer-to-peer in relazione alla diffusione non autorizzata di opere protette, benché dette opere siano messe online su tale piattaforma non dagli amministratori di essa ma dai suoi utenti e che nessun contenuto protetto sia fisicamente presente all’interno della piattaforma stessa, la responsabilità (in concorso con detti utenti) degli amministratori di tale piattaforma deve essere confermata laddove essi intervengano con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento nel consentire o facilitare l’accesso alle opere protette, indicizzando ed elencando su tale piattaforma i file torrent che consentono agli utenti della medesima di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una rete tra utenti (peer-to-peer).
Senza la messa a disposizione e la gestione da parte dei suddetti amministratori di una tale piattaforma, infatti, le opere in questione non potrebbero essere condivise dagli utenti o, quantomeno, la loro condivisione su Internet sarebbe più complessa. Deve dunque ritenersi che essi svolgano un ruolo imprescindibile nella messa a disposizione delle opere in questione. A tal proposito, la condotta del gestore della piattaforma deve essere valutata tenendo conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione di cui è causa e che consentono di trarre, direttamente o indirettamente, conclusioni sul carattere intenzionale o meno del suo intervento nella comunicazione illecita di detti contenuti: qualora risultasse che l'utilizzo principale o preponderante della piattaforma contestata consiste nella messa a disposizione del pubblico, in modo illecito, di contenuti protetti, tale circostanza figurerebbe tra gli elementi pertinenti al fine di determinare il carattere intenzionale dell'intervento di detto gestore. La pertinenza di una circostanza siffatta è ancora maggiore qualora detto gestore si astenga dal mettere in atto le opportune misure tecniche che ci si può attendere da un operatore normalmente diligente per contrastare in modo credibile ed efficace violazioni del diritto d'autore sulla sua piattaforma.
Nell'ambito dell'azione di responsabilità da “aggravamento del dissesto” contro gli amministratori, il Fallimento ha l’onere di individuare con chiarezza il momento in cui la società (poi fallita) avrebbe perso il capitale sociale, e dunque il momento in cui, a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento ex art. 2484 c.c., sorge in capo agli amministratori gli obblighi di cui agli articoli 2485 e 2486 c.c..
La violazione degli obblighi informativi relativi all’intermediazione di strumenti finanziari, integrando responsabilità precontrattuale o contrattuale, non può determinare – a meno che non sia espressamente previsto – l’invalidità dei contratti conclusi, essendo invece riconosciute soltanto conseguenze risarcitorie.
Nel caso di contratti d'investimento stipulati fuori della sede dell'intermediario, ai sensi dell'art. 30 t.u.f., la circostanza che la sola sottoscrizione del contratto sia avvenuta presso l'abitazione dell'investitore non è sufficiente per qualificare l'offerta come avvenuta "fuori sede", occorrendo a tal fine che l'investimento sia stato sollecitato presso il domicilio dell'investitore da un promotore finanziario o da un dipendente della banca intermediaria, tale da sorprendere l'investitore ed indurlo ad aderire ad una proposta non meditata adeguatamente e così far ritenere che la decisione di investimento sia stata assunta fuori sede.
Il diritto di recesso, previsto in favore del risparmiatore dall'art. 30, comma 7, t.u.f., nell'ipotesi di contratti stipulati fuori sede, si applica sia nel caso di vendita di strumenti finanziari per i quali l'intermediario ha assunto un obbligo di collocamento nei confronti dell'emittente, sia nel caso di mera negoziazione di titoli.
Per escludere l'applicabilità della disciplina relativa all'offerta fuori sede di cui all'art. 30 t.u.f. non è sufficiente che l'avviso sul diritto di recesso spettante all'investitore sia inserito nel contratto quadro di investimento, neppure ove si assuma l'esistenza di un collegamento negoziale tra tale contratto e le schede di prenotazione dei successivi ordini di investimento, essendo invece necessario che l'avviso sia inserito nei singoli ordini che danno luogo al collocamento degli strumenti finanziari.
Accertata la nullità di un contratto d'investimento, il venir meno della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporta l'applicazione della disciplina dell'indebito oggettivo, di cui agli artt. 2033 ss. c.c., con il conseguente sorgere dell'obbligo restitutorio reciproco, subordinato alla domanda di parte ed all'assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente alla banca per eseguire l'operazione e, dall'altro lato, i titoli consegnati dalla banca al cliente e gli altri importi ricevuti a titolo di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi, a norma dell'art. 2038 c.c., con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza.
La responsabilità del revisore per acquisti disinformati di strumenti finanziari da parte di investitori è di natura extracontrattuale, essendo evidente non solo la mancanza di contratto, ma anche la mancanza di contatto sociale qualificato tra revisore ed investitori, addirittura nemmeno identificabili al momento del deposito della relazione di revisione. Ne consegue che chi agisce in responsabilità deve allegare e provare: (i) quale sia stata la condotta del revisore; (ii) quali siano stati, in questa condotta, gli aspetti di violazione attiva od omissiva di norme di legge e/o dei principi di revisione; (iii) il danno subito; (iv) il nesso causale tra il comportamento negligente del revisore ed il danno.
L’azione di responsabilità prevista dall’art. 2395 c.c., di natura aquiliana, è esperibile dal socio o dal terzo al fine di ottenere il risarcimento del danno direttamente subito nella propria sfera giuridica in conseguenza di fatti illeciti compiuti dagli amministratori e, al pari di ogni altra azione risarcitoria, richiede l’accertamento della condotta contra legem dell’amministratore e la prova del nesso di causalità immediata e diretta che la lega al pregiudizio lamentato dal danneggiato. Dalla natura extracontrattuale della responsabilità invocata deriva, altresì, l’onere da parte dell’attrice di provare in giudizio tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito descritto ed, in particolare, la specifica condotta dolosa o colposa attribuita all’amministratore ed il nesso causale di derivazione diretta da essa del pregiudizio lamentato, non essendo sufficiente a fondare la pretesa risarcitoria il mero inadempimento della società alle obbligazioni contrattuali assunte nei confronti del terzo danneggiato.
Nell’ambito degli obblighi che gravano sugli amministratori, dalla cui violazione discende la loro responsabilità, si possono individuare gli obblighi che hanno un contenuto specifico e già precisamente determinato dalla legge o dall’atto costitutivo. Nel novero di tali obblighi si colloca certamente quello di rispettare le norme interne di organizzazione relativa alla formazione ed alla manifestazione della volontà della società. Oltre a tali specifici obblighi, la legge prevede due doveri, identificati attraverso clausole generali e cioè l’obbligo di amministrare con diligenza (art. 2392, comma 1, c.c.) e l’obbligo di amministrare senza conflitto di interessi (art. 2391 c.c.). Trattandosi di clausole generali, le norme non specificano la condotta che l’amministratore deve tenere ed è, quindi, necessario stabilire, di volta in volta, in relazione alle circostanze del caso concreto, quando vi sia violazione. Quanto all’obbligo di amministrare con diligenza, vige il principio di insindacabilità dell’opportunità e convenienza delle scelte gestionali. Tale principio muove dalla distinzione tra controllo di legittimità e controllo di merito e conduce ad escludere che gli amministratori possano essere chiamati a rispondere degli errori di gestione. In questa prospettiva, discrezionalità significa libertà di identificare le scelte, senza esonerare l’amministratore dall’osservanza del dovere di diligenza. Pertanto, se anche il giudice non può sindacare la scelta in sé, deve però controllare il percorso attraverso il quale essa è stata preferita. In proposito, il discrimine va individuato nel fatto che mentre la scelta tra il compiere o meno un atto di gestione, ovvero di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, al contrario la responsabilità può essere generata dall’eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di procedere a quel tipo di scelta. In altre parole, il giudizio sulla diligenza non può investire le scelte di gestione, ma il modo in cui esse sono compiute. Il limite alla sindacabiità delle scelte gestorie, identificato sinteticamente nell’espressione business judgement rule, circoscrive significativamente gli atti gestori sindacabili dall’Autorità Giudiziaria nell’ambito di un giudizio di responsabilità, escludendo dal vaglio giudiziario l’opportunità economica di operazioni che, in ultima analisi, è rimessa alla discrezionalità dell’imprenditore, essendo consentito censurare solo le decisioni manifestamente avventate e imprudenti. Il principio di insindacabilità del merito delle scelte di gestione (le quali possono eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società), invece, non si applica in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica e, tantomeno, in caso di inequivoche violazioni di legge.
La previsione statutaria della cessazione dell’intero consiglio di amministratore per effetto delle dimissioni di taluno dei suoi membri attribuisce all’esercizio da parte del singolo componente dell’organo amministrativo della facoltà di recedere liberamente dal mandato senza alcuna necessità di motivazione desumibile dall’art. 2385 comma 1 c.c., l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio con la funzione, non solo di conservare gli equilibri interni di composizione del consiglio originariamente voluti e cristallizzati nella delibera assembleare di nomina evitando in particolare l’alterazione che potrebbe derivare a danno della compagine di minoranza dall’applicazione del meccanismo della cooptazione, ma anche di fungere da stimolo alla coesione dell’organo gestorio poiché ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno o di alcuni degli altri determina la decadenza dell’intero consiglio e nel contempo può contribuire a quella decadenza quando in disaccordo con gli altri.
Il complesso onere probatorio gravante sull’amministratore che deduce l’uso distorto del meccanismo decadenziale concerne un vero e proprio “procedimento” elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore. La configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone, in particolare: a) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito; b) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario; c) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.
L’attività di direzione e coordinamento, in sé legittima, esercizio del controllo a livello gestorio, trova la sua fonte nel surplus di potere di fatto di cui un soggetto è titolare in virtù di una qualificata relazione con la società, che si crea sulla base di poteri che il soggetto è capace di esercitare sulla società stessa e che, tuttavia, li eccede, consentendo al titolare di esercitare un’attività – appunto l’attività di direzione e coordinamento – di per sé formalmente non inclusa in quei poteri; se l’attività è compiuta non nel rispetto dei corretti principi di gestione societarie e imprenditoriale genera responsabilità risarcitoria se da essa ne deriva un pregiudizio, in difetto di vantaggi compensativi.
La responsabilità ex art. 2497 c.c. può sorgere anche in esito ad una singola operazione se essa genera un pregiudizio e non costituisce espressione dei corretti principi di gestione societaria.
La responsabilità da abuso di attività di direzione e coordinamento ha natura contrattuale e secondo i principi che regolano gli oneri di allegazione e di prova in ipotesi di responsabilità contrattuale l'attore deve provare: - l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento (titolo); - il danno (pregiudizio arrecato al valore o alla redditività della partecipazione, pregiudizio all'integrità del patrimonio); - il nesso causale tra attività di direzione e coordinamento e danno. Secondo le usuali categorie l’attore sarebbe invece esentato dalla prova dell'illiceità dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento e la società convenuta-controllante dovrebbe provare che il danno deriva da causa a lei non imputabile - cioè la liceità dell'attività direttiva (conformità alle regole di corretta gestione societaria ed imprenditoriale) -, ovvero di avere fatto tutto quanto in suo potere per evitare il danno (art. 1218 c.c.). Oppure la società convenuta-controllante potrà, in presenza di abuso, provare l'esistenza di vantaggi compensativi (o che il danno è stato eliminato). In particolare, configurando la responsabilità come contrattuale, non v'è dubbio che la prova dell'esistenza dei vantaggi compensativi si propone come elemento scriminante la responsabilità (e non la loro assenza come elemento costitutivo della responsabilità) e va provata dalla società controllante convenuta. È vero tuttavia che la responsabilità non può derivare, genericamente, da un'attività (qui peraltro in se stessa legittima), ma sempre da un fatto determinato, da un'operazione o da un insieme di operazioni, diverse e collegate o dello stesso tipo e ripetute, ma in ogni caso adeguatamente individuate e, soprattutto, la loro illiceità – specie in relazione ad una clausola molto aperta quale quella che costituisce il criterio di liceità dell'attività di direzione e coordinamento - può non essere di immediata percezione sicché l'attore deve quanto meno allegare in modo specifico e dettagliato il profilo di illiceità che ritiene connotare il fatto generativo di danno, altrimenti la convenuta rimane privata della possibilità di difendersi.
Il recesso dalle trattative [nel caso di specie, relativamente ad un contratto di cessione di quote di S.r.l.] può essere causa di responsabilità precontrattuale quando sia privo di giustificato motivo. In particolare, affinché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che: (i) tra le parti siano in corso trattative; (ii) le trattative siano giunte a uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; (iii) la controparte, cui si addebita la responsabilità, interrompa le trattative senza un giustificato motivo; e (iv) pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei a escludere il suo ragionevole affidamento nella conclusione del contratto. A tale riguardo, perché le trattative possano considerarsi affidanti, è necessario che nel corso di esse le parti abbiano preso in considerazione almeno gli elementi essenziali del contratto, come la natura delle prestazioni o l’entità dei corrispettivi [nel caso di specie, applicando i suddetti principi, il Tribunale ha ritenuto insussistente la responsabilità precontrattuale dato che: (i) l'interruzione delle trattative, pur avvenuta dopo una lunga due diligence, è intervenuta prima che le parti trovassero un accordo sul prezzo (ii) parte acquirente non aveva fatto ragionevole affidamento sulla positiva chiusura delle trattative].
In ragione dell’assenza di contestazioni per effetto della contumacia della convenuta in un giudizio di contraffazione, le registrazioni di design azionate nel medesimo giudizio godono della presunzione di validità stabilita dall’art. 85 comma 1, Regolamento n. 6/2002.
Dal momento che la violazione di diritti di proprietà industriale e l’accertata commercializzazione dei prodotti in contraffazione è attività di per sé certamente produttiva di un danno alla titolare del design registrato, per la sua quantificazione in via equitativa è possibile ricorrere ad elementi comunque desumibili dalla documentazione in atti.