L’individuazione della figura del c.d. amministratore di fatto presuppone che la persona abbia in concreto svolto attività di gestione, e non anche meramente esecutive, della società e che tale attività abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale. La corretta individuazione della figura richiede l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, che si verifica quando le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, non si siano esaurite nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale, essendo la sistematicità sintomatica dell’assunzione di quelle funzioni.
Il soggetto che accetti di ricoprire la carica di amministratore di una società di capitali e poi consenta, con pieno assenso e consapevolezza, che a gestire l’impresa sociale sia di fatto un terzo, è sotto il profilo causale necessario compartecipe e sotto quello giuridico corresponsabile di ogni singolo atto di gestione che abbia lasciato compiere all’amministratore di fatto. Ove quest’ultimo arrechi un vulnus all’integrità del patrimonio sociale, la responsabilità in relazione a tale evento dannoso è pertanto ascrivibile, in via solidale, anche all’amministratore di diritto.
L’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica mentre l’azione di responsabilità dei creditori sociali verso gli amministratori si prescrive sempre in cinque anni, ex art. 2949, co. 2, c.c., ma il termine decorre dal momento in cui si è verificata l’insufficienza del patrimonio sociale o, più precisamente, dal momento in cui questa insufficienza patrimoniale diviene oggettivamente conoscibile da tutti i creditori. Quanto all’azione dei creditori sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa.
I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a), della l. 287 del 1990 e 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3, della legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
La formulazione di una eccezione riconvenzionale in una materia devolta alla competenza delle sezioni specializzate in materia di imprese non comporta la separazione delle cause e lo spostamento della competenza. Specularmente, essendo la competenza sull’opposizione a decreto ingiuntivo una competenza funzionale inderogabile ed immodificabile, anche per ragioni di connessione, del giudice che ha emesso il decreto, ne deriva che questi, in caso sia proposta domanda riconvenzionale di competenza delle sezioni specializzate delle imprese di altro tribunale, è tenuto a separare le due cause, rimettendo quella relativa a quest’ultima domanda dinanzi al tribunale competente.
La sospensione dell’esecuzione di una delibera assembleare di una società di capitali costituisce una misura cautelare tipica, in quanto espressamente prevista dal terzo comma dell’art. 2378 c.c. e richiede la contemporanea sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris, inteso quale verosimiglianza di fondatezza della domanda, e del periculum in mora, da accertarsi attraverso la comparazione tra il pregiudizio che illegittimamente l’opponente potrebbe subire per effetto dell’esecuzione di una delibera invalida e quello che, legittimamente, potrebbe patire la società per effetto della sospensione di tale esecuzione.
Al fine di valutare la sussistenza del presupposto del periculum in mora, occorre effettuare un bilanciamento tra l’interesse ad agire in via cautelare del socio e quello a resistere della società, al fine di salvaguardare la stabilità degli atti della società adottante il provvedimento, che deve ritenersi essenziale per il buon funzionamento dell’impresa collettiva sul mercato. In particolare, l’interesse della società alla continuità e alla stabilizzazione dell’organizzazione dell’impresa costituisce parte integrante e determinante della suddetta valutazione comparativa.
Pur nella indubbia ampiezza del rinvio operato all’autonomia privata, l’art. 2473 bis c.c. pone un duplice limite all’esercizio del potere di autoregolamentazione sociale in materia: l’indicazione specifica delle ipotesi di esclusione e la qualificabilità delle stesse in termini di gravità e di giustezza causale. Il primo limite vieta ai soci di prevedere l’adozione di clausole generiche ed indeterminate, imponendo di ancorare l’esclusione ad un parametro oggettivo preventivamente determinato. Il secondo funge da limite interno e deve essere inteso nel senso che l’esclusione debba trovare fondamento nella violazione di un interesse sociale meritevole di tutela. È proprio infatti la previsione della sussistenza di una giusta causa che mira ad escludere in radice ipotesi di abuso del diritto, impedendo che la decisione possa di volta in volta essere riempita con una valutazione eccessivamente discrezionale da parte della maggioranza, tutelando l’interesse del singolo socio di non essere vittima di abusi preconfezionati in clausole statutarie. È necessario, dunque, che la clausola di esclusione sia espressamente indicata come tale dai soci nell’atto costitutivo o nello statuto, che sia dotata del carattere della specificità e che consista in una regola organizzativa suscettibile di applicazione nei confronti di tutti i soci, senza, peraltro, potersi riferire individualmente ad un socio specificamente determinato.
Possono costituire giusta causa di esclusione, purché individuate in modo specifico e debitamente circoscritte, ipotesi attinenti: ad eventi che colpiscano direttamente la sfera soggettiva del singolo socio (incapacità sopravvenuta, condanna penale), ad eventi che incidano sul rapporto sociale sotto il profilo dell’inadempimento, anche non imputabile, degli obblighi contrattuali di gravità tale, comunque, da costituire un pregiudizio per l’efficiente svolgimento dell’attività sociale nonché la violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza e correttezza che discendono dalla natura fiduciaria, comunque caratteristica, del rapporto sociale.
L’art. 2378 c.c., nel disciplinare il procedimento cautelare volto ad ottenere la sospensione della delibera assembleare, prescrive, ai commi 3 e 4, che il ricorso debba essere depositato contestualmente al deposito della citazione introduttiva del merito e che il procedimento cautelare debba essere assegnato al medesimo giudice designato per la trattazione della fase di merito. La ratio sottesa alla disposizione citata è quella di evitare gli effetti distorsivi di una eventuale azione di sospensione della delibera sociale disgiunta dall’azione di annullamento (o nullità) della stessa. Tale scelta risponde alla logica di certezza dei rapporti giuridici e, prima ancora, della stabilità degli effetti delle decisioni assunte, che permeano l’intera disciplina del diritto societario, in funzione delle esigenze di certezza e stabilità dei traffici economici. Il principio di contestualità e la previsione di un unico giudice designato vanno, quindi, letti in questa chiave: i due accertamenti, cautelare e di merito, devono coesistere, rimanendo inammissibile un giudizio cautelare tipico autonomo.
La disposizione ex art. 2378, co. 3, c.c., applicabile anche alle deliberazioni di assemblea di s.r.l. per effetto del rinvio contenuto nell’art. 2479 ter, co. 4, c.c. e, benché non espressamente richiamata dall’art. 2379, co. 4, c.c., alle delibere nulle, mira ad evitare che il ricorrente possa ricevere pregiudizio nelle more del processo volto all’invalidazione della delibera assembleare ex artt. 2377 e 2378 c.c.
Avendo natura cautelare, l’accoglimento dell’istanza di sospensione, presuppone, ai sensi e per effetto dell’art. 669 quaterdecies c.p.c., che sussistano i presupposti del fumus boni iuris, sebbene la norma non vi faccia espresso riferimento, e del periculum in mora, sia pure con le peculiarità previste dall’art. 2378, co. 4, c.c. sul giudizio comparativo ivi delineato. Invero, l’accertamento del periculum, ai sensi della citata disposizione, richiede che il pregiudizio, che in termini di irreparabilità della lesione potrebbe subire il ricorrente dalla permanente efficacia (o esecuzione) della deliberazione impugnata, non debba essere visto a sé stante ed in via esclusiva, ma debba essere valutato in concreto comparandolo con quello che viceversa potrebbe patire la società per effetto della sospensione di tale decisione. Quanto al fumus, invece, esso va inteso quale probabile esistenza, sulla base di una cognizione sommaria, di un vizio invalidante che comporterebbe l’annullabilità ovvero la nullità della decisione medesima.
L’art. 34 d. lgs. n. 5/2003 prevede la devolubilità ad arbitri di alcune, ovvero di tutte, le controversie insorgenti tra soci o tra i soci e la società, che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. Non è compromettibile in arbitri la delibera concernente la veridicità e la chiarezza del bilancio; tali norme, infatti, non sono solo imperative, ma contengono principi dettati a tutela, oltre che dell’interesse dei singoli soci ad essere informati dell’andamento della gestione societaria al termine di ogni anno, anche dell’affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto.
Con riferimento specifico alle delibere di approvazione del bilancio, sono annullabili quelle adottate in presenza di violazioni procedimentali nella formazione del bilancio; sono viceversa nulle le deliberazioni di approvazione del bilancio caratterizzate dalla violazione di precetti inderogabili, sia sotto il profilo formale (ad esempio, per l’omessa convocazione del socio alle assemblee e, dunque, in caso di assoluta assenza di informazione), sia sotto il profilo sostanziale (veridicità e correttezza del contenuto del bilancio).
L’art. 2434 bis c.c., applicabile alle s.r.l. in virtù del rinvio compiuto dall’art. 2479 ter c.c., stabilisce poi un ulteriore limite all’impugnabilità delle delibere che attengono all’approvazione del bilancio, per le quali le azioni previste dagli artt. 2377 e 2379 c.c. non possono essere proposte nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che sia avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo. L’accertata invalidità di un bilancio non potrebbe ripercuotersi su quello successivo, tenendo conto dell’autonomia di ciascuno di questi e dell’esigenza di assicurare solo la continuità formale dei criteri utilizzati nella rispettiva redazione. In altre parole, la prescrizione in esame finisce per far diventare inutile l’impugnativa del bilancio precedente. Ed infatti, ove quello successivo contenga lo stesso vizio, occorrerà impugnarlo autonomamente; ove invece contenga emenda dei vizi originari, ancor di più potrebbe ritenersi cessato qualunque interesse all’impugnativa del primo bilancio. La ratio della previsione dell’art. 2434 bis c.c. è infatti quella di attuare, esprimendolo nella fattispecie concreta, il generale principio di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), poiché – secondo la valutazione della fattispecie stessa data dal legislatore, letta alla luce del principio di continuità dei bilanci –, approvato il bilancio successivo, la rappresentazione data, con il bilancio precedente, della situazione economico patrimoniale della società ai soci ed ai terzi ha esaurito le sue potenzialità informative (ed organizzative), e dunque anche le sue potenzialità decettive, dovendo invece i destinatari dell’informazione, per ogni valutazione e decisione organizzativa conseguente, far riferimento all’ultimo bilancio approvato. Tradotta questa visione ordinamentale in termini di interesse ad agire, ne emerge con evidenza il difetto con riguardo all’impugnativa di un bilancio superato dall’approvazione di quello successivo.
Al fine di far valere la nullità di clausole contrattuali contenute in un contratto di fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust e invocare l’applicazione uniforme di clausole anticoncorrenziali, l’attore deve provare l’esistenza di una intesa anticoncorrenziale anteriore o coeva alla stipulazione del contratto di garanzia e finalizzata all’applicazione uniforme delle clausole contestate, intesa che è elemento costitutivo essenziale ed imprescindibile per poter configurare una violazione dell’art. 2, co. 2, lett. a) della l. n. 287/1990. Al contrario, non è sufficiente fondare la domanda giudiziale sulla riproduzione, nel modello contrattuale fideiussorio impugnato predisposto dalla banca, di clausole contrattuali, quali la c.d. clausola di riviviscenza, quella di rinuncia per il garante ai termini dell’art. 1957 c.c. e di sopravvivenza, che riproducano lo schema negoziale predisposto dall’ABI già accertato come non compatibile con il suddetto art. 2, l. n. 287/1990 da parte della Banca d’Italia.
Per la distinzione tra una fideiussione e un contratto autonomo di garanzia risulta particolarmente significativo il profilo della causa: mentre, la garanzia autonoma ha funzione indennitaria, la fideiussione ha funzione satisfattiva, perché il garante esegue la medesima prestazione dovuta dal debitore principale, del tutto sovrapponibile e qualitativamente omogenea a quella dovuta dal fideiussore.
In tema di fideiussioni omnibus conformi al modello ABI, è irrilevante la qualifica del garante come professionista o consumatore, dal momento che la violazione della normativa antitrust può essere invocata sia dagli imprenditori che dai consumatori, essendo entrambi attori del mercato titolari di un interesse processualmente rilevante alla conservazione del suo carattere competitivo.
L’efficacia probatoria del provvedimento n. 55/2005 di Banca d’Italia sulla violazione del diritto della concorrenza e sulla portata dell’illecito anticoncorrenziale è limitata ai contratti di fideiussione stipulati tra l’ottobre 2002 e il maggio 2005. Per i contratti conclusi successivamente occorre invece allegare autonomi fatti idonei a provare l’esistenza sia di un’intesa anticoncorrenziale a monte, sia di una prassi contrattuale che, per le modalità di applicazione uniformi delle clausole, viola l’art. 2, co. 2, lett. a, della l. 287/90, nonché le regole del mercato e della concorrenza in generale: il mero fatto che la banca abbia proposto alla clientela un contratto contenente delle clausole di contenuto identico a quelle censurate dalla Banca d’Italia non è quindi di per sé sufficiente a dar conto della sussistenza di un’intesa rilevante nella sua estensività e pervasività sul piano antitrust.
Affinché operi il meccanismo estensivo della nullità parziale all’intero contratto, le singole clausole invalide devono risultare essenziali per le parti: nel caso delle fideiussioni ABI, in particolare, occorre provare che senza le clausole interessate il creditore e il fideiussore non avrebbero, rispettivamente, accordato e prestato la garanzia.
Per determinare se un determinato contratto debba essere ricondotto allo schema tipico della fideiussione o a quello atipico della garanzia autonoma, risulta maggiormente significativo, piuttosto che il criterio letterale e la rilevanza in tal senso della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni”, quello della causa che, avendo la prima una funzione satisfattiva e la seconda una funzione indennitaria.
Ulteriori elementi utili che possono indurre a collocare la fideiussione fuori dall’ambito della garanzia autonoma, sono rappresentanti dal fatto che: (i) la fideiussione sia stata ricevuta da una banca, mentre quella autonoma vede generalmente la stessa banca nel ruolo di garante; (ii) la fideiussione concerne obbligazioni future, mentre la garanzia autonoma dovrebbe accedere ad obbligazioni contestuali all’assunzione della garanzia; (iii) la garanzia autonoma nei rapporti garante-debitore principale ha un carattere necessariamente oneroso, caratteristica non necessaria nella fideiussione che può dunque anche avere carattere gratuito.
I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a, della l. 287 del 1990 e 101 TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3, della legge succitata e 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
La mancata previsione di un termine entro il quale la prestazione deve essere eseguita autorizza il creditore ad esigerla immediatamente (in applicazione del principio quod sine die debetur statim debetur), ma ciò non gli impone di costituire in mora la controparte ex art. 1454 c.c. e quindi di fare ricorso al giudice ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1183 c.c., essendo invece sufficiente, in relazione agli usi, alla natura del rapporto negoziale e all’interesse delle parti, che sia decorso un congruo spazio di tempo dalla conclusione del contratto, per cui possa ritenersi in concreto superato ogni limite di normale tolleranza; ed invero, una protratta tolleranza del ritardo della controparte costituisce solo uno degli elementi da valutare ai fini dell’accertamento della gravità dell’inadempimento, potendo se del caso concorrere ad attenuarne l’intensità, ma non potendo di per sé escludere la ricorrenza dell’inadempimento ove protrattosi oltre la tolleranza del creditore.
L’inosservanza di un termine non essenziale previsto dalle parti per l’esecuzione di un’obbligazione, pur impedendo, in mancanza di una diffida ad adempiere, la risoluzione di diritto ai sensi dell’art. 1457 c.c., non esclude la risolubilità del contratto, a norma dell’art. 1453 c.c., se si traduce in un inadempimento di non scarsa importanza, ossia se il ritardo superi ogni ragionevole limite di tolleranza, occorrendo avere riguardo all’oggetto e alla natura del contratto, al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto, e al persistente interesse dell’altro contraente alla prestazione dopo un certo tempo.
Il collegamento negoziale è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato attraverso una pluralità coordinata di contratti. Questi conservano una loro causa autonoma, ancorché ciascuno sia finalizzato a un’unica regolamentazione dei reciproci interessi, sicché il vincolo di reciproca dipendenza non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e mantenga una distinta individualità giuridica. Il collegamento può ritenersi meramente occasionale, quando le singole dichiarazioni, per quanto finanche casualmente riunite, siano strutturalmente e funzionalmente autonome e mantengano l’individualità propria di ciascun tipo negoziale in cui esse si inquadrano, sicché la loro messa in relazione non influenza la disciplina dei singoli negozi in cui si sostanziano. Il collegamento è, invece, funzionale, quando i diversi e distinti negozi, cui le parti danno vita nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pur conservando l’individualità propria di ciascun tipo, vengono concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza, per cui le vicende dell’uno debbano ripercuotersi sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia.
In tema di collegamento negoziale c.d. funzionale, l’accertamento del giudice di merito ai fini della qualificazione giuridica di tale situazione negoziale deve investire l’esistenza, l’entità, la natura, le modalità e le conseguenze del collegamento realizzato dalle parti mediante l’interpretazione della loro volontà contrattuale tenendo presente che affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico non è sufficiente un nesso occasionale tra i negozi, ma è necessario che il collegamento dipenda dalla genesi stessa del rapporto, dalla circostanza cioè che uno dei due negozi trovi la propria causa (e non il semplice motivo) nell’altro, nonché dall’intento specifico e particolare delle parti di coordinare i due negozi, instaurando tra di essi una connessione teleologica, sempre che la volontà di collegamento si sia obiettivata nel contenuto dei diversi negozi potendosi ritenere che entrambi o uno di essi, secondo la reale intenzione dei contraenti, siano destinati a subire le ripercussioni delle vicende dell’altro.
L’art. 2704 c.c. non risulta applicabile al negozio di sottoscrizione della quota di aumento di capitale, assoggettato, invece, alla disciplina speciale dettata per le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione. Invero, ai libri sociali non è applicabile l’art. 2704 c.c. circa la data della scrittura privata, perché le annotazioni eseguite non sono soggette a sottoscrizione e la tenuta dei libri stessi e la loro efficacia probatoria è regolata da norme particolari.
La vicenda modificativa dell’atto costitutivo derivante dall’aumento del capitale sociale a pagamento, si struttura in tre momenti: la deliberazione, la sottoscrizione e il conferimento.
La deliberazione di aumento di capitale non è self executing, non essendo idonea, di per sé, a produrre automaticamente l’effetto modificativo del contratto sociale, ma necessita, ai fini della sua attuazione, del compimento di ulteriori atti anche unilaterali o atipici e, segnatamente, dei negozi di sottoscrizione, quale forma di dichiarazione della volontà di adesione dei soci o, eventualmente, di terzi all’incremento quantitativo del capitale approvato, che non coincide con la manifestazione di voto espressa dal socio durante l’assemblea.
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si perfeziona con lo scambio del consenso fra il socio sottoscrittore, o il terzo, e la società, per il tramite dell’organo amministrativo; quindi, la deliberazione di aumento di capitale ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del socio, o del terzo, come una accettazione, secondo lo schema dell’art. 1326 c.c. Del resto, la necessaria contestualità del versamento, prevista dall’art. 2481 bis, co. 4, c.c. non inficia le suesposte considerazioni, dovendosi ritenere che tale contestualità sia stata dettata proprio al fine di assicurare la serietà della manifestazione di volontà del socio, o del terzo (se consentito), e che, comunque, si riferisca alla fase esecutiva del contratto. Mentre in sede di costituzione della società a responsabilità limitata il versamento del venticinque per cento del capitale all’organo amministrativo assurge ad un requisito di perfezionamento del contratto di sottoscrizione delle quote di partecipazione, esso, invece, in sede di aumento di capitale, costituisce una mera esecuzione di tale contratto perfezionatosi con il semplice consenso.
Il conferimento della quota di aumento del capitale sottoscritta rileva quale momento esecutivo del contratto, il cui inadempimento può essere eccepito, al fine di un eventuale giudizio di responsabilità scaturente dalla violazione della regola di comportamento, in ossequio al principio di relatività degli effetti del contratto statuito dall’art. 1372 c.c. soltanto dalle parti contrattuali e non, di certo, dal terzo rispetto alle vicende negoziali.
Ai sensi dell’art. 3, co. 3, del d.lgs. n. 168 del 2003 la ragione di connessione della causa con le materie di cui all’art. 3, co. 1 e 2, del medesimo decreto legislativo, in virtù della quale spetta alla Sezione specializzata in materia di impresa la cognizione sulla domanda connessa, sussiste nelle ipotesi di connessione c.d. qualificata, inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza o della pregiudizialità tecnica, la quale afferisce alla particolare relazione sostanziale tra i rapporti giuridici controversi contemplata dagli artt. 31 ss. c.p.c.
Tra l’azione di riduzione in surroga del legittimario pretermesso e l’azione di accertamento della responsabilità contro l’amministratore esercitata ai sensi dell’art. 146 l. fall. non si configura un rapporto di pregiudizialità tecnica tale da giustificare la loro prosecuzione simultanea, ma un rapporto di pregiudizialità meramente logica tra la ragione del credito, vantata dalla curatela nell’azione di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c., e il rapporto giuridico complesso, da cui essa trae origine.
Ne discende che non è configurabile un’ipotesi di connessione qualificata tra le domande che fondi la competenza della Sezione specializzata in materia di impresa sulla domanda di riduzione in surroga ex artt. 557 e 2900 c.c. per ragioni di connessione.
L’operatività di una clausola compromissoria, rilevabile su eccezione della parte interessata, non impedisce l’emissione di un decreto ingiuntivo. Infatti, sebbene vi sia una convenzione di arbitrato, il creditore è pienamente legittimato a promuovere il procedimento monitorio e il giudice non può rigettare il ricorso sul rilievo della convenzione di arbitrato, in quanto l’eccezione di compromesso, al pari dell’eccezione di incompetenza territoriale, è un’eccezione in senso stretto, dunque non rilevabile d’ufficio, e nella fase sommaria del procedimento monitorio non vi è ancora una controversia caratterizzata dal contraddittorio tra le parti e quindi deferibile alla cognizione degli arbitri.
Per contro, nel successivo giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’exceptio compromissi deve essere sollevata, a pena di decadenza, con il primo atto del debitore convenuto sostanziale: si instaura un ordinario procedimento di cognizione, che implica necessariamente il deferimento della controversia alla cognizione del collegio arbitrale, con conseguente declaratoria di nullità del decreto ingiuntivo emesso dal giudice ordinario incompetente. La presenza di una clausola compromissoria, difatti, non esclude la competenza del giudice ordinario a emettere il decreto ingiuntivo, ma impone a costui, in caso di opposizione fondata sull’esistenza di detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la contestuale remissione della controversia al giudizio arbitrale
Per tali ragioni, il procedimento monitorio è del tutto legittimo, ma il decreto ingiuntivo, anche laddove fondato nel merito, ha vita effimera. La sopravvivenza nel successivo giudizio arbitrale degli effetti della domanda promossa dinanzi al tribunale incompetente viene poi assicurata dalla traslatio iudicii disciplinata dall’art. 819 ter c.p.c
L’interpretazione secondo cui, pur in presenza di una convenzione di arbitrato, il creditore è legittimato a promuovere la domanda monitoria e il giudice è tenuto a emettere il relativo decreto appare difficilmente compatibile con la soccombenza quale presupposto della condanna alle spese, a fronte di un’attività processuale legittimamente svolta dal creditore opposto nella fase monitoria. Si ritiene, pertanto, che sussistano “le altri gravi ed eccezionali ragioni” di cui all’art. 92, co. 2, c.p.c., come risultante dalla sentenza n. 77 del 2018 della Corte Costituzionale, che giustificano la compensazione integrale delle spese del giudizio.