Quella di cui all’art. 2265 c.c. è una norma transtipica, applicabile ad ogni tipo societario e, dunque, anche alle società di capitali, in quanto se la societas è l’unione di più patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell’impresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la totale esclusione di uno o più soci, quali soggetti titolari di una quota di capitale sociale, da quei risultati. Nell’ambito delle società di capitali – dove non può propriamente parlarsi di utili e perdite nel senso originariamente inteso dalla disposizione codicistica con riferimento alla società semplice – la disposizione di cui all’art. 2265 c.c. deve intendersi riferibile esclusivamente ad un patto che intercorra non tra due soci, ma tra il socio (o più d’uno) e la società stessa. Ciò poiché la ratio del divieto di patto leonino – o, meglio, il principio generale sotteso all’art. 2265 c.c., che ne consente l’applicabilità trasversale ad ogni tipo societario – consiste nella volontà del legislatore di sanzionare gli accordi che intacchino la purezza della causa societatis come individuata dall’art. 2247 c.c.
La causa societatis ha ad oggetto unicamente il rapporto del singolo socio con la società medesima e, quindi, il suo status all’interno della stessa; sicché, perché essa venga alterata, è necessario un patto che comporti, per previsione statutaria, l’esclusione completa del socio dagli utili, dalle perdite, o da entrambi. Esclusione che si concreterebbe in una vera e propria modificazione dello status di socio quale parte del contratto societario. Pertanto, l’indagine volta a saggiare l’eventuale nullità di un patto ai sensi dell’art. 2265 c.c. non è diretta semplicemente a verificare se siano integrati i due lemmi dal contenuto alquanto generico previsti dalla norma medesima, ma in definitiva a valutare se la causa societatis del rapporto partecipativo del socio in questione permanga invariata nei confronti dell’ente collettivo o se, invece, venga irrimediabilmente deviata dalla clausola che lo esonera, atteso il suo contenuto, dalla sopportazione di qualsiasi perdita risultante dal bilancio sociale o dalla divisione degli utili maturati e deliberati in distribuzione ex art. 2433 c.c., o da entrambi, perché solo in tal caso potrà dirsi che l’art. 2265 c.c. sia stato violato.
L’alterazione della causa societatis non può verificarsi qualora tra due soci intervenga un patto con cui l’uno, in ultima istanza, si impegni a manlevare l’altro dai rischi inerenti all’acquisto di una partecipazione nella società, poiché tale accordo non modifica le caratteristiche essenziali del rapporto tra il socio e la società medesima, ossia la partecipazione del primo, latu sensu, agli utili ed alle perdite della stessa. Un patto siffatto si pone, dunque, totalmente al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 2265 c.c.
Più che ad un’analisi volta ad accertarne la nullità ex art. 2265 c.c., i patti inerenti alla gestione della società conclusi tra i soci devono, piuttosto, essere sottoposti alla valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. A tal fine, è necessario ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se essa esista, sia lecita e meritevole di tutela.
L’accordo interno tra due soci, con il quale uno si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative attraverso l’attribuzione di un diritto di put out entro un termine dato, deve ritenersi caratterizzato da una causa meritevole di tutela. Ciò in quanto la causa dell’operazione di acquisto delle azioni con opzione put, palesatasi nel mondo degli affari, è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci. Nel momento della costituzione della società, o quando si intenda operarne il rilancio mediante una particolare operazione economica, il contributo di ulteriori capitali, rispetto a quelli disponibili per i soci che il progetto abbiano concepito, può divenire essenziale, anche quale condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato. Nel caso di cessione di un pacchetto azionario, la meritevolezza di un meccanismo siffatto potrebbe, in linea di principio, essere ravvisata nella finalità di agevolare il trasferimento di azioni, per loro natura votate alla circolazione e dallo scambio, e l’ingresso di nuovi soci, i quali saranno vieppiù motivati all’investimento per il fatto di essere “garantiti” da eventuali perdite conseguenti alla pregressa gestione societaria.
L’opzione put a prezzo preconcordato può superare positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c. laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di trasferimento di quote con firma digitale (art. 36, comma 1-bis d.l. 112/2008, conv. nella legge 133/2008), tale atto deve essere in formato digitale ab origine e sottoscritto digitalmente dalle parti dopo essere stato convertito in file con estensione PDF/A. Non sono di contro ammesse procedure di digitalizzazione di secondo grado, come la scansione di un documento cartaceo.
In tema di ricorso monitorio avente ad oggetto la domanda di pagamento del prezzo convenuto tra due soci per la cessione delle quote sociali di una società in accomandita semplice, la società è priva della legittimazione passiva, non essendo possibile immaginare che la società target sia debitrice del prezzo di cessione verso il socio che ha ceduto la propria partecipazione ad un terzo, né che sia lei a dover pagare il prezzo di vendita dei beni appartenenti al suo patrimonio.
La cessione di azioni o quote di una società ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta; invero la partecipazione societaria non esprime una contitolarità nella proprietà dei beni sociali o nella titolarità di ragioni di credito verso i debitori sociali, ma si estrinseca nello status di socio, ed è la quota sociale che costituisce oggetto della cessione; da ciò deriva, in linea di massima, che una diversa consistenza dei beni e dei crediti della società non incide sull’oggetto del trasferimento, costituito dalle azioni o quote, ma riguarda soltanto il valore economico di quest’ultime. Tuttavia, le maggiori passività pregresse o le minori attività scoperte dall’acquirente dopo il perfezionamento del contratto di cessione diventano rilevanti anche nell’ambito del sinallagma contrattuale laddove il cedente abbia espressamente assunto una garanzia sul valore economico della partecipazione ceduta.
Nella vendita di partecipazioni sociali, la clausola con la quale il venditore si impegna a tenere indenne il compratore dalle sopravvenienze passive nel patrimonio della società ha ad oggetto una prestazione accessoria e non rientra, quindi, nella garanzia di cui all’art. 1497 c.c., che attiene, invece, alle qualità intrinseche della cosa, esistenti al momento della conclusione del contratto. Pertanto, il diritto del compratore all’indennizzo, fondato su detta clausola, non è soggetto alla prescrizione annuale ex artt. 1495 e 1497 c.c., bensì alla prescrizione ordinaria decennale.
Nel contratto di acquisto di compartecipazioni societarie, qualora il giudice di merito abbia accertato che al negozio siano stati collegati dei patti autonomi di garanzia aventi ad oggetto le passività del patrimonio sociale, c.d. “business warranties”, che non attengono però all’oggetto immediato del negozio, consistente nell’acquisizione della partecipazione sociale, bensì al suo oggetto mediato, rappresentato dalla quota parte del patrimonio sociale che essa rappresenta, tali contratti costituiscono un’autonoma regolamentazione della garanzia e, in caso di inadempimento, deve riconoscersi all’acquirente il diritto a conseguire un indennizzo, e non la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto di acquisto delle azioni a causa del difetto di qualità della cosa venduta, secondo la disciplina di cui agli artt. 1495 e 1497 c.c.
L’art. 1359 c.c. non può trovare applicazione (i) nel caso in cui la condizione abbia carattere bilaterale e sia dunque apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti, ovvero (ii) laddove l’evento dedotto in condizione sia costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione, come il rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 106 t.u.b.
È da escludersi che sia viziata da nullità per indeterminatezza dell’oggetto la clausola contenente la puntuale determinazione del prezzo di cessione, nonché la chiara esplicazione del meccanismo negoziale di aggiustamento del prezzo medesimo che si sarebbe innescato nel caso di mancato avveramento della condizione apposta al contratto.
La pandemia può ritenersi costituire un evento imprevedibile e ingovernabile che, andando a cadere sulla esecuzione di contratti di durata o a esecuzione differita, anche quando non giunga a rendere in concreto definitivamente impossibile una prestazione ancora da eseguire, può comunque rovesciare il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale. Lo strumento risolutorio di cui all’art. 1467 c.c. risulta inadeguato a dare risposta alle esigenze delle parti e occorre, pertanto, indagare sulla possibilità di intervenire sul contenuto del contratto, che, salvi i casi previsti dalla legge o dalle parti stesse, le vincola irrevocabilmente (art. 1372 c.c.).
Va individuo nel disposto dell’art. 1374 c.c. lo strumento utile a permettere la conservazione del contratto, a condizioni mutate, rispettando il bilanciamento degli interessi delle parti in linea con i loro originari intenti, ma alla luce delle mutate condizioni. In particolare, poiché ex art. 1374 c.c. il contratto obbliga le parti, oltre che a quanto espressamente previsto nel contratto, anche alle prestazioni che sono dovute secondo buona fede, fra queste deve includersi anche il prestarsi, ove l’equilibrio del sinallagma originariamente trasfuso nel contratto sia aggredito e stravolto dalla pandemia o dalle sue conseguenze, ad una rinegoziazione effettiva delle clausole, la quale possa portare ad una congrua modificazione del contratto: sì che la parte che si sottragga ad una tale rinegoziazione deve dirsi inadempiente. Ciò non comporta comunque l’obbligo di perfezionare una modificazione del contratto, ma solo quello di tentare in buona fede di riequilibrarlo in una onesta trattativa. Il giudice, qualora gli venisse richiesto ex art. 2932 c.c., può intervenire a determinare il riequilibrio del contratto, ma solo in limiti ben determinati. Il giudice, infatti, non è mai chiamato ad esercitare una supervisione o correzione della volontà delle parti che hanno stipulato il contratto, ma può giungere alla ridefinizione del sinallagma solo ancorandosi al regolamento negoziale stesso e avendo come fondamento centrale della sua valutazione il contenuto della trattativa che le parti avevano condotto prima che il processo di rinegoziazione si interrompesse.
In materia di contratti, si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto – comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere certo e obiettivo – sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo tale da assurgere a fondamento, pur in mancanza di un espresso riferimento, dell’esistenza ed efficacia del contratto. La materia della presupposizione attiene dunque in primo luogo alla esistenza ed efficacia del contratto, anche se non è escluso che fatti presupposti comuni e obiettivi possano rilevare nella valutazione ex art. 1374 c.c. e, dunque, nella valutazione di inadempimento, quando il presupposto comune sia tale da chiarire l’ambito delle prestazioni dovute secondo il contratto.
Poiché il bene di cui si tratta è un bene il cui valore si stima non solo nel presente ma anche e soprattutto in prospettiva futura, la pretesa di ottenere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di un contratto preliminare di cessione di quote, che poggi sulla allegazione delle difficoltà incontrate dalla società bersaglio, richiede una allegazione che sia specifica e conduca alla prova che la società bersaglio versi, per effetti di fatti sopravvenuti e imprevedibili, non già in una situazione di contingente contrazione di fatturati, o altra difficoltà, ma in una situazione che prevedibilmente inibisca le proiezioni verso il futuro che erano formulabili quando l’accordo di acquisto fu concluso.
Il conflitto d’interessi idoneo, ex art. 1394 c.c., a produrre l’annullabilità del contratto, richiede l’accertamento dell’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, il quale, dovendo essere dimostrato non in modo astratto o ipotetico, ma con riferimento al singolo atto, è ravvisabile esclusivamente rispetto al contratto le cui caratteristiche consentano l’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro. È da escludere, pertanto, una condotta abusiva del rappresentante e un pregiudizio del rappresentato quando il contenuto del negozio sia stato da quest’ultimo predeterminato.
La prescrizione applicabile alle obbligazioni avente ad oggetto il pagamento di una prestazione negoziale è quella ordinaria decennale. Il dies a quo, dal quale decorre il termine decennale ex art. 2946 c.c., deve essere individuato nella data dalla quale il credito può essere fatto valere secondo i principi racchiusi nell’art. 2935 c.c.
In tema di domanda per l’accertamento della simulazione relativa di una cessione di quote sociali dissimulante una donazione esperita dall’erede-legittimario si applica il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il regime probatorio muta a seconda che il legittimario agisca prospettando la lesione della propria legittima e, quindi, a tutela dell’intangibilità della quota di riserva, nel qual caso assume la veste di terzo rispetto alle parti contraenti del negozio e non incorre nelle limitazioni previste dall’art. 1417 c.c. (ed è quindi ammesso a provare la simulazione per testi e presunzioni senza limiti) o, diversamente, agisca quale erede successore del de cuius facendo valere un diritto di questo in funzione della divisione tra coeredi, nel qual caso non può essere considerato terzo, ma parte del negozio, con conseguente inammissibilità della prova testimoniale e della prova per presunzioni. Allorquando, poi, siano proposte sia la domanda di divisione che quella di simulazione, il regime probatorio dev’essere scisso in relazione a ciascuna azione proposta, con riconoscimento della qualità di terzo esclusivamente in relazione alla tutela specifica della posizione del legittimario.
Quando l’attore che agisce in divisione esperisce domanda di simulazione dell’atto di cessione di quote finalizzato ad incrementare l’entità del patrimonio relitto da dividere assume senz’altro la veste di parte ed essendo, quindi, assoggettato ai limiti probatori di cui all’art. 1417 c.c., non è ammesso a dare prova della simulazione ricorrendo a presunzioni, essendo, invece, richieste idonee produzioni documentali, in mancanza delle quali la prova della simulazione della cessione delle quote non può ritenersi raggiunta.
La circostanza che la partecipazione di un socio diventi di minoranza a seguito del trasferimento delle partecipazioni intervenuto tra gli altri soci non costituisce un fatto illecito idoneo a far sorgere un diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., in particolare nelle ipotesi in cui lo statuto non preveda alcun limite alla circolazione delle quote, le quali, pertanto, sono liberamente trasferibili ai sensi dell’art. 2469 c.c.
L’azione di annullamento per incapacità naturale prevista dall’art. 1425 e 428 c.p.c. richiede, innanzitutto, la deduzione e prova dell’incapacità di intendere e di volere al momento della conclusione dell’accordo, non essendo sufficiente la mera suggestionabilità o debolezza psichica prospettata, mentre le altre azioni di annullamento per dolo, violenza o errore essenziale richiedono la deduzione e prova della specifica condotta tenuta dal contraente per incidere sulla volontà negoziale dell’altro che la convenuta non ha né descritto né offerto di provare in giudizio.
Laddove l'approfittamento della situazione di debolezza psichica dell'altro contraente integri la fattispecie del reato di circonvenzione d'incapace allora il contratto stipulato è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa, quale è l’art. 643 c.p..
Non costituisce un "atto che importi per il soggetto passivo qualsiasi effetto giuridico dannoso" tale da configurare un elemento del reato di circonvenzione d'incapace ex art. 643 c.p. l'esecuzione di un contratto preliminare che prevede un compenso congruo per la cessione di una quota di S.r.l. di una società messa in liquidazione per perdita integrale del capitale sociale in quanto manca l'elemento della pregiudizialità dell'impegno, anche se detto impegno sia stato assunto a causa di un generico approfittamento di una situazione di debolezza psichica.
La promessa di un beneficio, quale quello di ritirare una denuncia già presentata in relazione a reati perseguibili d’ufficio, non integra né la fattispecie della violenza ex art. 1434 e ss. c.c., non potendo la stessa rappresentare la prospettazione di un male ingiusto, né del dolo ex art. 1439 c.c., non rappresentando una menzognera rappresentazione attuale di una realtà inesistente, ma consistendo al contrario in una rappresentazione di un possibile comportamento futuro [nel caso di specie, il Tribunale di Milano ha rigettato le pretese dell’attore, il quale aveva agito per l’annullamento per violenza o dolo di un contratto di cessione di quote societarie].