Affinché possa configurarsi un collegamento contrattuale tra il contratto di cessione di quota di società e il contratto di cessione del ramo d'azienda (di cui la quota non è parte) è necessario che sussistano: (i) una "unitarietà dell'interesse globalmente perseguito"; (altro…)
Non costituisce inadempimento contrattuale - tale da determinare la risoluzione del contratto di cessione di ramo d’azienda - e in particolare non rappresenta un inadempimento del patto di non concorrenza contenuto nel detto contratto di alienazione, la circostanza che la cedente prosegua ad esercitare l’attività di commerciante ambulante, qualora le parti del contratto abbiano espressamente escluso - con una valutazione ex ante - dalle attività vietate alla cedente quella esercitata dalla stessa in qualità di “commercio ambulante su aree pubbliche”.
Nell’ambito di un contratto di cessione di ramo d’azienda, l’accertamento dell’insussistenza di alcun inadempimento in capo alla cedente ed il conseguente rigetto della domanda avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo contrattuale, determina il rigetto della richiesta di risarcimento del danno avanzata dalla cessionaria.
La clausola risolutiva espressa di cui all'art. 1456 cod. civ., contenuta in un contratto di compravendita di azienda presuppone, per il suo esercizio, la valutazione dell'agire dei contraenti secondo il criterio generale della buona fede, sia quanto alla ricorrenza dell'inadempimento sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risoluzione. Ai fini della risoluzione di diritto del contratto, dunque, non basta la sola verificazione dell'inadempimento previsto nella clausola risolutiva espressa, in quanto anch'essa deve essere interpretata (art. 1366 cod. civ.) ed eseguita (art. 1375 cod. civ.) secondo buona fede. Il principio di buona fede diventa pertanto, in quest'ottica, canone di valutazione dell'effettiva esistenza di un inadempimento di uno dei contraenti e del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, dovendosi negare efficacia all'atto di esercizio del potere ex art. 1456 cod. civ. quando il mancato adempimento o ritardo nell'adempimento, pur previsto, sia oggettivamente di scarsa importanza.
La sospensione cautelare degli effetti di una deliberazione consiliare (con la quale si designava chi avrebbe dovuto presiedere una futura assemblea) nonché i provvedimenti necessari adottati nell'imminenza della medesima assemblea sono da revocarsi nel momento in cui l'assemblea in questione risulta conclusa, essendosi esaurita qualsiasi residua efficacia vincolante dei predetti provvedimenti cautelari. (altro…)
La sussistenza della qualifica di società emittente azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante e le relative conseguenze in tema di computo delle azioni proprie nei quorum non possono dipendere da alcuna decisione di un organo sociale ma solo dal verificarsi dei presupposti di legge.
Il provvedimento di sospensione può intervenire anche quando "la deliberazione abbia già avuto parziale esecuzione ma sia ancora destinata a produrre effetti sulla struttura della società e sulla sua organizzazione", vale a dire quando (come tipicamente, avviene nel caso di delibere recanti nomina dei componenti di un organo sociale) la deliberazione, pur senza necessità di ulteriori (altro…)
La disposizione di cui all'art. 2470 c.c., del tutto autonoma rispetto alla generale previsione di cui all'art.2193 c.c. in tema di efficacia c.d. dichiarativa della pubblicità realizzata tramite il Registro delle imprese, è diretta a permettere di individuare con certezza i soci di s.r.l. rispetto ai rapporti endo-societari con la conseguenza che in ambito endo-societario la qualità di socio di s.r.l. vada attribuita specificatamente ai soggetti il cui atto di acquisto della partecipazione risulti iscritto nel Registro delle imprese.
L’opzione put realizza una ipotesi di patto leonino soltanto qualora l’'esclusione di un socio dalle perdite o dagli utili sia assoluta e costante e non risponda a interessi meritevoli di tutela. Non viola dunque il divieto di patto leonino una opzione put che preveda l’esclusione dalle perdite non assoluta (riguardando soltanto una parte della quota di capitale sociale acquistata) e che non sia costante (dovendosi esercitare l’opzione all'interno di un limitato arco temporale) (vedi Cass., n. 2927/1994, n. 642/2000; Trib. Milano, n. 9301/2015 del 6 agosto 2015).
Non sussiste la nullità per difetto sopravvenuto della causa in concreto di un’'opzione put per effetto della totale perdita di valore della quota, in quanto neppure il fallimento di una società determina lo scioglimento per impossibilità sopravvenuta del contratto di compravendita delle azioni o quote della stessa società, essendo la dichiarazione di fallimento causa di scioglimento, ma non di immediata estinzione, della società, sicché la perdurante esistenza in vita dell’ente e della sua organizzazione sociale conferisce, di per sé, natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione, con conseguente liceità dei negozi che abbiano ad oggetto il loro trasferimento (vedi Cass., n. 12831/2013, n. 11361/1999, n. 4584/1999; n. 7693/1998).
Un contratto c.d. “di joint venture” che contenga l’obbligazione delle parti rispettivamente di cedere e di acquistare delle partecipazioni di una società terza può essere qualificato, adottando i parametri interpretativi di cui agli artt. 1362, 1363 c.c., come contenente anche un contratto preliminare rafforzato di vendita di partecipazioni sociali.
Ai fini della quantificazione del danno conseguente alla mancata stipulazione di un contratto definitivo di compravendita di partecipazioni sociali, pari alla quota parte degli utili conseguiti dalla società c.d. “target” che l’'acquirente avrebbe potuto percepire in caso di tempestivo adempimento da parte del cedente, è necessario produrre in giudizio i bilanci della società relativi al periodo di riferimento.
Ai fini di un procedimento cautelare d’urgenza, laddove lo statuto preveda la competenza di un collegio arbitrale per l’impugnazione delle deliberazioni dei cui effetti si chiede la sospensione con ricorso ex art. 700 c.p.c., è sufficiente a determinare la pendenza del procedimento arbitrale il deposito di istanza di nomina degli arbitri. Da un lato perché – prevedendo - il primo atto con cui la parte che agisce manifesta la relativa volontà ed innesca l’inizio del procedimento è appunto l’istanza di nomina degli arbitri rivolta all’autorità giudiziaria preposta alla loro nomina ex art. 810 commi 3 e 4 c.p.c.; dall’altro perché ogni altro e successivo atto non dipende dalla sua attività processuale, ma dall’attività processuale di altri, cioè dell’Autorità alla quale è richiesta la nomina degli arbitri, talché sarebbe del tutto incongruo far dipendere dall’operato di quest’ultima il rispetto o no del termine perentorio di impugnazione che fa capo invece alla parte. Men che meno si potrebbe avere riguardo allo scambio del primo scritto difensivo, poiché esso suppone che il collegio arbitrale si sia insediato (art. 816 bis c.p.c.).
Nel caso di specie, risulta sussistente il periculum in mora - che l’art. 2378 commi 3 e 4 c.c. presuppone per la concessione di un provvedimento d’urgenza sospensivo dell’esecuzione e degli effetti della deliberazione dei soci. Invero, tale requisito va valutato apprezzando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il socio ricorrente (che è stato escluso dalla votazione per un’asserita violazione della prelazione) dalla mancata sospensione delle delibere impugnate ed il pregiudizio che subirebbe la società dalla sospensione delle delibere stesse. Orbene, come noto, la società come tale non è titolare di qualificate posizioni soggettive in ordine al fatto che l’organo amministrativo o di controllo siano composti da determinate persone piuttosto che da altre. Dunque, dalla sospensione delle deliberazioni la società non subisce alcun pregiudizio. Viceversa il socio escluso dalla votazione subisce un grave pregiudizio consistente: (i) anzitutto nel non poter esprimere il diritto di voto che gli appartiene in ragione della titolarità del 50% del capitale sociale, diritto che, in caso di partecipazione all’assemblea, si traduce in diritto di veto, esercitabile nei limiti della buona fede. Ciò vale, rispetto alle delibere impugnate, con riferimento ai compensi degli amministratori ed alla nomina dei sindaci; (ii) in secondo luogo e soprattutto, nel vedere eliminato il proprio diritto di nominare due amministratori della società, e di concorrere alla nomina del presidente e del vice presidente del c.d.a.; (iii) in terzo luogo, l’esclusione comporterebbe l’esclusione dell’esercizio, da parte sua, di tutti i diritti amministrativi, non solo di quello di voto.
Non è da considerarsi trasferimento del controllo, ai fini della interpretazione della clausola di prelazione di una società, il trasferimento da parte di un socio persona fisica del 50% di una s.r.l., in quanto è estranea alla posizione di controllo la situazione del socio titolare di un mero diritto di veto: il socio che può impedire all’altro o agli altri di assumere determinate decisioni non controlla la società, perché, all’opposto, il controllo è integrato dal potere di chi ne sia titolare di imporre agli altri soci le proprie scelte.
Riprova evidente dell’assenza di controllo in capo al socio al 50 % di s.r.l., specie quando lo statuto sociale prevede, come nel caso di specie, un quorum deliberativo pari alla maggioranza del capitale sociale, è che l’ipotesi di scioglimento delle società di capitali per impossibilità di funzionamento dell’assemblea ex art. 2484 n. 3) c.c., si verifica proprio, quasi sempre, in questi casi. E l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea è segno inequivocabile della mancanza di controllo da parte di uno dei soci.
Per potere fruttuosamente esperire azioni di responsabilità ex art. 2497 c.c. nei confronti dei soci di controllo e di altri responsabili in solido, il socio di minoranza ha l'onere di dedurre (e poi provare) un danno arrecato (altro…)