Non v’è incompatibilità fra accettazione con beneficio di inventario e subentro dell’erede nella qualità di socio illimitatamente responsabile in società di persone, e ciò sia nel caso in cui l’acquisto della qualità di socio sia intervenuto in forza di una clausola statutaria c.d. di continuazione automatica, sia nel caso in cui il subentro fosse stato convenuto tra gli eredi e i soci superstiti con un accordo ad hoc.
L’usufrutto della quota di una società di persone è ammissibile, poiché la quota può formare oggetto di diritti ai sensi dell’art. 810 cod. civ. e rientrare nel concetto di beni mobili immateriali ex art. 812, comma 3, cod. civ., ma la qualità di socio non viene però acquistata dall’usufruttuario ma permane in capo al nudo proprietario. L’assetto dei poteri, diritti e facoltà attribuibili al titolare di un diritto parziario quale l’usufruttuario non discende dalla qualificazione giuridica eventualmente utilizzata dalle parti per individuare il titolare del diritto costituito o trasferito, ma discende dalla tipologia di diritto sulla quota che è stato in concreto costituito o traferito; in altri termini, la volontà delle parti non può spingersi sino a modificare il contenuto del diritto reale di usufrutto in senso contrario a quanto voluto dal legislatore e a far acquisire la qualità di socio a colui che non può essere considerato tale per scelta dell’ordinamento.
Nelle società di persone l’incarico gestorio può essere affidato ad un soggetto non socio.
La mancata ricostituzione entro sei mesi della pluralità dei soci non determina affatto la cessazione o l’estinzione automatica della società di persone, ma soltanto che la stessa si scioglie ex lege ai sensi dell’art. 2272, n. 4, cod. civ. e entra automaticamente in stato di liquidazione; il socio rimasto, dopo aver lasciato trascorrere il semestre, potrebbe proseguire l’attività d’impresa utilizzando il complesso dei beni sociali senza dare inizio alla fase di liquidazione e pertanto la società potrebbe proseguire con un unico socio, sostanzialmente come una società unipersonale a tempo indeterminato assoggettata ad un particolare regime di responsabilità per le obbligazioni sociali, esposta al rischio di liquidazione derivanti da azioni esecutive promosse dal creditore particolare del socio superstite e di cancellazione d’ufficio da parte del registro delle imprese.
L’art. 3 d.p.r. 247/2004 non prevede affatto un’estinzione automatica della società di persone al verificarsi di una causa di scioglimento, ma soltanto che, laddove risulti una di tali cause, l’ufficio del registro delle imprese debba invitare gli amministratori a comunicare l’avvenuto scioglimento o a fornire elementi idonei a dimostrare la persistenza dell’attività sociale e che, decorso un termine di trenta (in caso di ricevimento dell’invito) o quarantacinque giorni (in caso di irreperibilità) senza che gli amministratori abbiano fornito riscontro, l’ufficio provveda a trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale, il quale potrà nominare d’ufficio il liquidatore oppure – se non lo ritiene necessario – trasmettere direttamente gli atti al giudice del registro per l’adozione delle iniziative necessarie a disporre la cancellazione della società.
Il socio che richiede il pagamento della sua parte degli utili è tenuto a dimostrare l’avvenuta approvazione del rendiconto annuale da parte dei soci, in quanto presupposto indefettibile per la distribuzione degli utili.
L’art. 2395 cod. civ. si ritiene applicabile analogicamente anche alle società di persone così come il principio – affermato sulla base del dato testuale di tale disposizione, che peraltro risponde ai principi generali sul risarcimento del danno aquiliano – secondo cui l’azione individuale del socio non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 cod. civ. esige che il singolo socio sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società.
L’applicazione analogica dell’art. 2395 cod. civ. anche alle società di persone si giustifica sulla base del fatto che ancorché prive di personalità giuridica, dette società costituiscono comunque un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei singoli soci.
Nell’ambito delle azioni di risarcimento per danno da c.d. mancata distribuzione degli utili occorre distinguere: (i) l’ipotesi in cui il socio lamenti la mancata approvazione del rendiconto – unico adempimento necessario nelle società di persone, a differenza delle società di capitali ove invece è necessaria una delibera che ne autorizzi la distribuzione – nella quale si è al cospetto di un danno che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 2395 cod. civ. e che può essere riconosciuto sempre a condizione che sia dimostrata la presenza di utili distribuibili; (ii) l’ipotesi in cui il socio faccia valere in giudizio la mancata percezione degli utili come derivante da diversi comportamenti di gestione tenuti dall’amministratore, quali ad esempio atti distrattivi, nella quale si è al cospetto di un danno meramente indiretto non risarcibile ai sensi dell’art. 2395 cod. civ., posto che le condotte dell’amministratore ledono in via primaria il patrimonio sociale e solo di riflesso quello del socio.
L’azione di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, sulla legge o su clausole generali, si rilevi carente ab origine del titolo giustificativo, mentre resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
La disciplina antiriciclaggio (D.Lgs. 231/2007) non è dettata al fine di garantire i rapporti fra privati, e in particolare non pone a carico della Banca un obbligo giuridico di impedire gli eventi quali la generazione di insolvenza o la prosecuzione indebita di attività di impresa in stato di perdita di capitale; la sussistenza di un tale obbligo è requisito indispensabile per potere costruire, sulla base della violazione di una norma, la responsabilità omissiva del soggetto agente per le conseguenze dannose. La normativa antiriciclaggio è invece posta a presidio dell’interesse pubblicistico a impedire la circolazione di denaro di provenienza illecita [nel caso di specie il Tribunale ha, quindi, ritenuto insussistente la responsabilità ex artt. 2043 e 2055 c.c. delle banche per non aver impedito all’amministratore di una società cooperativa, poi fallita, di effettuare prelievi in contanti dai conti intestati alla società, dato che anche a voler qualificare tali operazioni come “sospette”, ciascuna banca avrebbe avuto il solo obbligo di effettuare una segnalazione all’UIF, senza avere il potere, né il dovere, di impedire i prelievi].
L'azione della società nei confronti di colui che è incaricato di svolgere attività di revisione volontaria (e non di revisione legale) dei conti deve essere qualificata in termini di azione risarcitoria per inadempimento contrattuale ex art. 1218, 1223 c.c. (nel caso di specie asseritamente costituente concausa dell’ illecita prosecuzione dell’attività di impresa dopo il verificarsi della causa di scioglimento ex art. 2484 n. 4 c.c.).
Ne consegue che, in base all’azione contrattuale svolta, parte attrice deve:
(i) provare il titolo della sua pretesa, individuando la fonte contrattuale delle obbligazioni in tesi inadempiute;
(ii) allegare l’inadempimento alle obbligazioni come sopra individuate;
(iii) provare il danno in tesi derivante dall’inadempimento ed il nesso causale tra esso inadempimento ed il danno.
In materia di prescrizione, nell'attività di revisione volontaria non trovano applicazione né l’art. 2409 sexies ult. comma c.c. né l’art. 15 D.Lgs. n. 39 del 2010 – riguardanti solo la revisione legale – bensì, trattandosi di rapporto di ordine contrattuale ed originante azione contrattuale, rileva l’ordinario termine decennale di cui all’art. 2946 c.c..
Il giudizio secondo equità – c.d. “sostitutiva” - è consentito soltanto nei casi previsti dalla legge (art. 113 c.p.c.) e tra questi non rientrano le cause di responsabilità promosse da società commerciali verso revisori incaricati di svolgere attività di revisione volontaria limitata per il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento dei loro obblighi contrattuali.
L'accordo che prevede il riconoscimento di un beneficio economico a favore di un ex socio, in caso di cessione di quote societarie, è vincolante e non richiede ulteriori pattuizioni per la sua esecuzione, qualora sia già stabilita la percentuale del beneficio da corrispondere. Tale clausola mira a compensare il contributo apportato dall'ex socio alla crescita del valore aziendale e non può essere svuotata di significato attraverso un'interpretazione contraria alla lettera dell'accordo, all'intenzione delle parti e al principio di buona fede. La successiva transazione generale tra le parti non estingue questo specifico obbligo, se non espressamente menzionato.
In tema di azione di responsabilità contro gli amministratori di società cooperativa – applicandosi alle cooperative, per quanto non espressamente previsto, le disposizioni sulle società per azioni (ex art. 2519, comma 1, c.c.) – l’art. 2392 c.c. impone agli amministratori di adempiere i doveri loro imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e delle loro specifiche competenze e prevede che essi siano solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri. Trattasi di responsabilità di natura contrattuale che impone a chi agisce in responsabilità di provare l’inadempimento, il danno ed il nesso eziologico; per contro, incombe sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
La circostanza che un consigliere sia privo di specifiche deleghe non esime il medesimo, quale componente del CdA, dall’esercitare la propria carica con la diligenza richiesta, nonché dal vigilare ed attivarsi al fine di preservare l’integrità del patrimonio sociale, ponendo rimedio alle eventuali illegittimità rilevate.
L’assunzione, da parte della società, di delibera sostitutiva, ai sensi dell’art. 2377, co. 8 c.c., provoca la cessazione della materia del contendere nell’instaurato giudizio avente ad oggetto la richiesta di annullamento della delibera poi sostituita.
L’art. 2476, co. 2 c.c. riconosce ai soci un diritto potestativo di controllo, attuabile nelle forme del pieno accesso all’intera documentazione sociale, a prescindere dalla entità della partecipazione al capitale sociale, il cui esercizio non è subordinato alla ricorrenza di esigenze e di interessi particolari e rispetto al quale il soggetto passivo si trova in situazione di soggezione, ovvero nella situazione di dover soggiacere alla richiesta di accesso formulata dal socio, il quale non è neppure tenuto ad indicare i motivi per i quali l’esercizio della potestà in questione venga fatta valere.
Il diritto di controllo comprende sia il diritto all’informazione in senso stretto, che si esercita attraverso la richiesta di notizie sullo svolgimento degli affari sociali, sia il diritto alla consultazione, che implica l’esame diretto della documentazione sociale, ossia dei libri sociali e dei “documenti relativi all’amministrazione”, da intendersi in senso ampio con riferimento a tutta la documentazione contrattuale, amministrativa, contabile e fiscale della società, con facoltà per il socio di estrarne copia.
Al socio è poi rimessa la scelta in ordine alla modalità di accesso alle informazioni (richiesta di notizie o consultazione), nonché la decisione in merito all’ambito (tempo di riferimento, settori di attività, singoli affari o situazione complessiva) e al grado di approfondimento dell’istanza rivolta agli amministratori.
L’unico limite che il potere di controllo del socio incontra è quello connesso alla generale operatività del principio di buona fede e correttezza. Ciò significa che il socio non può esercitare i propri diritti di informazione e di ispezione con modalità vessatorie od emulative tali da recare inutilmente intralcio alla gestione sociale ovvero al fine di ostacolare l’attività della società o di danneggiarla.
Inoltre, il diritto di informazione del socio deve essere contemperato con le esigenze di riservatezza della società, tutte le volte in cui il socio richiedente si ponga in rapporto concorrenziale con la società medesima e il diritto di ispezione venga, quindi, esercitato in modo strumentale e per finalità estranee a quelle di controllo, avuto riguardo alla concreta posizione del socio medesimo.
Benché con riferimento alle azioni volte all'annullamento delle delibere societarie sia vero che, di regola, l'interesse ad agire deve ritenersi in re ipsa nella legittimazione a proporre la domanda, tuttavia tale principio non vale nell'ambito dell'impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione, regolata dall'art. 2388, co. 4, c.c., in relazione al quale la norma attribuisce anche al socio il potere di impugnazione della delibera consiliare, ma prescrive che, a tutela dell'efficienza e della certezza nei confronti dei terzi dell'attività dell'organo amministrativo, la legittimazione ad impugnare del socio sia limitata alla delibera consiliare non conforme (a legge o statuto) che arrechi pregiudizio alla sua sfera giuridica personale, andando ad incidere direttamente su un suo diritto individuale, amministrativo o patrimoniale, derivante dal contratto sociale e dalla sua posizione all'interno dell'organizzazione sociale che lo contrapponga alla società. Non deve invece ritenersi riconosciuto al socio la legittimazione ad impugnare una delibera illegittima del consiglio di amministrazione in relazione un pregiudizio meramente riflesso della lesione dell'interesse sociale connesso al mero status di socio.
Il socio non è legittimato a impugnare la delibera del consiglio di amministrazione assunta in violazione delle disposizioni (di legge o di statuto) previste per l'adozione delle operazioni con parti correlate, dovendo trovare applicazione, quanto al regime d'impugnazione, la disciplina dell'art. 2391 c.c. relativa alle decisioni assunte dall'organo amministrativo in conflitto di interesse, di cui la fattispecie delle operazioni con parti correlate costituisce una specificazione e che riserva la legittimazione all'impugnazione solo agli amministratori e al collegio sindacale.
Se l’attribuzione del diritto di voto in assemblea al creditore pignoratizio costituisce un elemento “connaturale” al pegno di partecipazioni sociali specificamente previsto dall’art. 2352 c.c. e 2471 bis c.c., espressione dello spossessamento della peculiare res data in garanzia, l’eventualità del suo esercizio con finalità diverse da quella della conservazione del valore economico della partecipazione si connota di per sé, quale che sia la giustificazione addotta, come abuso del pegno rilevante ai sensi dell’art. 2793 c.c.
La cessione di azienda stipulata dal legale rappresentante comune delle due società contraenti, con se stesso, é annullabile ai sensi dell’art. 1395 c.c. su iniziativa della rappresentata che non l’abbia validamente ratificato e la causa di invalidità si comunica alla clausola compromissoria in quanto esterna al contratto.
L’abuso di maggioranza costituisce, in diritto, un esercizio del diritto di voto in modo contrario alla buona fede, il che si ha quando il socio di maggioranza, che sempre ha diritto di votare nel proprio interesse, eserciti il voto allo scopo di ledere il socio di minoranza, oppure intenda avvantaggiarsi ingiustificatamente in danno del socio di minoranza. In questo contesto l’interesse sociale al risultato del voto così esercitato non costituisce elemento dirimente, ma piuttosto un rilevante elemento di riscontro, nel senso che talvolta l’interesse sociale in realtà resta neutro, oppure astrattamente sussiste comunque ma ciò non vieta di ravvisare un abuso [nel caso di specie, il Tribunale non ravvisa abuso di maggioranza in una delibera di aumento di capitale da offrire in opzione ai soci senza sovrapprezzo – in una situazione in cui la società necessitava di nuove risorse economiche, il socio di minoranza non aveva la disponibilità per sottoscrivere l’aumento e la differenza tra valore nominale e valore reale delle azioni non era particolarmente rilevante – precisando che non può affermarsi che la società “non abbia interesse” ad un aumento se esso non sia fatto con sovrapprezzo, in quanto per la società il solo dato rilevante è quello dell’ammontare di entrata patrimoniale, senza che si possa far coincidere il vantaggio per il socio che legittimamente sottoscriva l’aumento senza sovrapprezzo con il danno per la società ed i socio di minoranza].
L’aumento di capitale offerto in opzione ai soci non necessita, per legge, di imposizione di sovrapprezzo: il sovrapprezzo è, infatti, strumento che ha la principale funzione di non ledere i soci a beneficio di terzi investitori. Tuttavia, quando la differenza fra valore nominale e valore effettivo delle quote/azioni è molto rilevante, la mancata previsione di un sovrapprezzo, particolarmente nei casi di seria e nota difficoltà finanziaria del socio minoritario, può essere segno di volontà lesiva, rilevante ai fini dell’abuso di maggioranza.
Il dettato dell’art. 2479-bis, comma 1, c.c. va inteso nel senso letterale e, quindi, la convocazione è valida alla sola condizione che la raccomandata sia spedita nel termine di almeno otto giorni prima dell’adunanza, salva la prova, a cura del socio, della impossibilità di partecipare derivante da causa non a lui imputabile (Il Tribunale individua quale esempio di tale causa non imputabile al socio il caso di pervenimento della raccomandata in tempo non utile).
L’azione di cui all’art. 2476, co. 1 c.c., per la sua natura, comporta che la parte attrice sia onerata di allegare con sufficiente specificità l’inadempimento gestorio, e di provare il danno e il nesso causale fra inadempimento e danno. Spetta invece all’amministratore provare di avere bene operato, o di non essere in colpa. Laddove l’amministratore opponga in compensazione un controcredito, questo va specificato nei suoi fatti costitutivi e, ove si tratti di credito per compensi o rimborsi, anche nell’ammontare.
Il mancato pagamento di imposte costituisce violazione dei doveri gestori e genera danno corrispondente ai maggiori importi che l’amministrazione competente esiga come conseguenza del mancato pagamento, mentre gli importi oggetto di atti impositivi sono comunque dovuti, anche se rateizzati e non ancora totalmente pagati.
Il fatto che agli amministratori spettasse da statuto il rimborso delle spese non toglie che la loro esecuzione dovesse avvenire solo laddove ve ne fosse adeguata giustificazione, mancando la quale, spetta agli amministratori dimostrare il diritto a ciascun rimborso: la buona regola gestoria è che le uscite della società debbano essere adeguatamente giustificate, una per una.
Anche per determinare la quota di regresso vale l’onere probatorio sulla parte che esercita il regresso, la quale è onerata di provare elementi a sostegno del quantum; in mancanza di alcun elemento, si applica una presunzione di pari concorso dei componenti dell’organo gestorio. Ai fini della determinazione della quota interna di responsabilità tra coobbligati in caso di pagamento integrale del debito da parte di uno di essi, non è possibile predicare la corresponsabilità in mera forza dell’eventuale competenza professionale, come non è possibile predicare una minore responsabilità per un titolo di studio non universitario, dal momento che il criterio di giudizio è quello del ruolo ricoperto in società, per il quale il grado di competenza e diligenza è quello previsto dalla legge. Per i semplici consiglieri vi è obbligo di adeguata informazione e azione, relativamente ai compiti che gravano anche su di essi, segnatamente la redazione del bilancio, in occasione della quale essi sono tenuti alla verifica di ogni aspetto della vita sociale influente sulle voci di bilancio o emergente dalle verifiche che sono necessariamente prodromiche alla formazione del bilancio. Inoltre, essi, in presenza di segnali di allarme, sono tenuti ad informarsi e ad agire secondo il migliore interesse della società, con l’uso degli strumenti gestori e di legge.
Il curatore che propone ex art. 146 l. fall. l’azione di responsabilità contro gli amministratori per i danni cagionati alla società amministrata, a causa della prosecuzione dell’esercizio dell’attività d’impresa in violazione degli artt. 2485 e 2486 c.c., deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri, nonché provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno. Spetta invece agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestategli, l’osservanza dei doveri previsti dalla legge e dallo statuto.
Nel caso in cui la condotta addebitata all’amministratore sia quella di aver proseguito l’attività caratteristica dell’impresa, nonostante l’integrale perdita del capitale sociale, e la conseguente violazione degli artt. 2485 e ss. c.c., la curatela è tenuta ad allegare il compimento di attività non conservativa, ma non ad indicare necessariamente le singole condotte espressione dell’attività d’impresa che siano foriere di danno (specie se trattasi di imprese che operano a ciclo produttivo continuo).
Ai fini della risarcibilità del preteso danno, il curatore, oltre ad allegare l’inadempimento dell’amministratore ai doveri gestori, deve anche allegare e provare, sia pure ricorrendo a presunzioni, l’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, e la riconducibilità della lesione al fatto dell'amministratore inadempiente.
La quantificazione del danno patito va effettuata secondo il criterio della differenza tra netti patrimoniali ex art. 2486 c.c.