La legittimazione ad impugnare una delibera assembleare è diversa a seconda della pronuncia che si intenda conseguire e del tipo di società cui la delibera perviene. In caso di vizi suscettibili di produrre l’annullabilità della delibera nelle s.r.l. è legittimato ad agire, ex art 2479 ter c.c., ogni socio assente, dissenziente o astenuto, ciascun amministratore, l’organo di controllo. La qualifica di socio si acquista nei rapporti societari interni all’organizzazione dell’ente dal momento del deposito dell’atto di trasferimento presso l’ufficio del registro delle imprese, stante il disposto dell’art 2470 c.c.
La formula normativa dell’art. 2479 ter c.c., prevedente la impugnabilità nel più ampio termine di tre anni delle decisioni dei soci di s.r.l. prese in assoluta mancanza di informazione, non si differenzia da quella parallela in materia di s.p.a. e contenuta nel primo comma dell'art. 2379 c.c. lì dove commina la nullità delle deliberazioni, tra l'altro, assunte nei casi di mancata convocazione dell'assemblea, casi che il terzo comma dello stesso articolo precisa non possono configurarsi quando la convocazione non manca ma è solo irregolare, provenendo comunque l'avviso da un componente dell'organo amministrativo. In sostanza, nell'ipotesi di deliberazione assembleare di s.r.l. la assoluta mancanza di informazione va riferita, in via sistematica, al procedimento di convocazione in senso proprio e si risolve nel medesimo vizio di nullità previsto per le spa di mancanza assoluta di convocazione.
La circostanza che l’assemblea si tenga in altro luogo da quello indicato nell’avviso di convocazione comporta la nullità della delibera, in quanto assunta in assenza assoluta di informazione.
La ricevuta di avvenuta consegna (RAC) rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata del destinatario, costituisce documento idoneo a dimostrare, fino a prova del contrario, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella certezza pubblica propria degli atti facenti fede fino a querela di falso. Ciò in quanto, per un verso, gli atti dotati di siffatta speciale efficacia di pubblica fede devono ritenersi in numero chiuso e insuscettibili di estensione analogica, essendo per natura idonei a incidere, comprimendole, sulle libertà costituzionali e sull’autonomia privata e, per altro verso, il tenore della richiamata disciplina secondaria (ove si discute in termini di opponibilità ai terzi, ovvero di semplice prova dell'avvenuta consegna del messaggio), induce ad escludere che la legge abbia inteso espressamente riconoscere una qualsivoglia certezza pubblica alle attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di posta elettronica certificata. Pertanto, deve escludersi che alle ricevute delle notifiche a mezzo PEC sia attribuita fede privilegiata e che, conseguentemente, i file attestanti l’invio e il ricevimento degli atti allegati possano essere fatti oggetto di querela di falso.
Quando l'amministratore sia inadempiente degli obblighi fiscali formali e sostanziali che gravano sulla società amministrata e tale inadempimento abbia determinato l'irrogazione di sanzioni a carico della società, egli risponde verso la società stessa del pregiudizio che il suo comportamento le ha causato. Tale pregiudizio è pari all'ammontare di sanzioni, interessi e aggi, non rispondendo l'amministratore per l'omesso pagamento del debito per l'imposta, che è in ogni caso imputabile soltanto alla società.
La proposizione della querela di falso non è impedita dalla formazione del giudicato sulla situazione sostanziale, anzi è il presupposto – qualora venisse accolta e dichiarata la falsità di tutto o parte del materiale probatorio utilizzato dal giudice, purché rilevante ai fini della decisione – per la caducazione del giudicato medesimo. Ritenere altrimenti significherebbe rendere assolutamente inutilizzabile, salvo il caso di confessione della falsità del documento proveniente dalla parte che l’ha prodotto e se ne è avvalsa, lo strumento di cui all’art. 395, n. 2, c.p.c.
Le autorizzazioni amministrative, relative allo svolgimento di determinate attività, hanno carattere personale e come tali non sono riconducibili ai beni che compongono l’azienda, né possono essere cedute. Pertanto, le espressioni con le quali, nei negozi relativi alla cessione di azienda, si dichiari che il venditore cede le relative licenze commerciali vanno intese nel senso più limitato dell’assunzione di un obbligo a rinunciare alle medesime e a non opporsi alla concessione di una nuova licenza in capo al nuovo titolare dell’azienda. La rinuncia all’autorizzazione amministrativa da parte del venditore, dunque, costituisce il mezzo per rendere possibile l’ottenimento dell’autorizzazione per il lecito esercizio dell’attività acquistata dall’acquirente.
La disciplina del diritto di recesso del socio di s.r.l. è dettata dall'art. 2473, co. 2, c.c., che non prevede termini di decadenza, essendo inopportuno, siccome contrario alla lettera del comma 1 della citata norma, nonché alla ratio legis e alla buona fede, assoggettare il socio dissenziente, in forza di estensione analogica, ai ridotti termini di esercizio del recesso fissati per le s.p.a. dall'art. 2437 bis c.c., stante la diversità di presupposti del recesso nei due tipi societari. Pertanto, il diritto di recesso del socio va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l. e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, quali fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale tale esercizio è avvenuto, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti.
La dichiarazione di recesso non può essere sospensivamente condizionata dal socio al rimborso della propria partecipazione. Infatti, considerato che il diritto alla liquidazione e al pagamento della quota di partecipazione alla società costituisce una conseguenza ex lege del recesso, giammai l’esercizio di una siffatta ragione creditoria potrà essere riguardato alla stregua di condotta impositiva di una condizione allo scioglimento parziale del rapporto sociale. Inoltre, la prospettazione e la proposizione di un determinato controvalore monetario per la quota in prima battuta da parte del socio recedente non può essere ritenuta condotta anomala e contra legem, poiché, diversamente opinando, si giungerebbe a fornire un’inammissibile interpretatio abrogans al disposto del comma 3 dell’art. 2473 c.c., nella parte in cui legittima indistintamente “la parte più diligente”, sia essa il socio o la compagine, all’esperimento del procedimento di arbitraggio per la stima della quota, dacché una siffatta dicitura implicitamente presuppone la possibilità della provenienza della proposta iniziale di valutazione da parte del medesimo socio e del successivo esperimento dell’arbitraggio dalla società in disaccordo con tale liquidazione unilaterale.
La dichiarazione di recesso valida ed efficace determina, ipso iure, l’insorgenza in capo all’attrice del diritto di credito all’ottenimento del rimborso della partecipazione, da eseguirsi entro centottanta giorni dalla comunicazione del recesso, nella modalità di cui all’art. 2473, co. 4, c.c., e la liquidazione del cui ammontare deve essere effettuata, ai sensi del comma 3 della medesima disposizione, tenendo conto (ossia non con applicazione e riproduzione pedissequa) al valore di mercato del patrimonio sociale al momento della dichiarazione di recesso.
Ai fini della determinazione del valore della partecipazione del socio recedente ex art. 2743 c.c., per “valore di mercato” deve intendersi il valore che intrinsecamente il patrimonio sociale avrebbe qualora fosse oggetto di scambio e che deve, dunque, riflettere il valore corrente dei cespiti aziendali, oltreché l’eventuale valore di avviamento: al fine della relativa individuazione, soccorre l’applicazione del criterio liquidatorio denominato, nella letteratura aziendalistica, “metodo di valutazione patrimoniale” e che, nella sua applicazione più semplice, consente di pervenire all’individuazione del capitale economico aziendale mediante la valutazione di ogni singola componente attiva e passiva dello stato patrimoniale e la successiva rivalutazione dei valori, in aumento o in diminuzione, sulla base di diversi criteri predeterminati, variabili in funzione della natura delle singole poste.
Con riferimento alla determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso, la voluntas legis muove nel senso di una rimessione della liquidazione della quota a un accordo di natura negoziale tra socio recedente e società, ferma l’esperibilità, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le parti sul quantum, dell’iter non contenzioso del ricorso all’arbitratore nominato all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, ossia non già di una diretta determinazione giudiziale della quota, bensì di un’integrazione ab externo del contenuto del negozio ad opera di un terzo esperto e imparziale. Laddove, invece, il ricorso alla giurisdizione contenziosa sarà ammissibile nei limiti della successiva ed eventuale impugnazione della perizia giurata dell’esperto, ma per fare valere i soli vizi di manifesta erroneità o iniquità ai sensi dell’art. 1349, co. 1, c.c.
Nel caso in cui, in un momento in cui la volontà di recesso di uno dei soci non era ancora sorta o comunque manifestata, sia intervenuto un accordo in ordine al valore delle partecipazioni detenute dai soci ai fini ai fini della trasformazione della società in vista della relativa cessione, va escluso che tale accordo possa comportare adesione alla stessa stima anche al diverso fine di determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso in favore del socio recedente ai sensi dell'art. 2473 c.c. Infatti, mentre la stima del patrimonio della società personale trasformata in società di capitali - destinato a costituire una sorta di unico conferimento in natura al capitale della compagine risultante dalla trasformazione - mira invece a garantire un’effettività ufficiale alla stima a suo tempo effettuata unilateralmente dai soci, in un’ottica di massima trasparenza e chiarezza in ordine alla dotazione di capitale a disposizione per l’esercizio dell’attività della “nuova” società di capitali, e sarà, quindi, improntata non già a un’ottica liquidatoria, bensì a una diversa ottica di continuità aziendale, la stima della quota ai fini della liquidazione del recedente segue per legge criteri diversi (criteri rispettivamente improntati, ex art. 2473 c.c., alla considerazione del valore di mercato del patrimonio sociale al tempo del recesso, ed ex art. 2500-ter comma 2 c.c., sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo) e mira alla realizzazione di differenti rationes legis, perseguendo l’intento di garantire l’effettività del diritto del socio dissenziente a non rimanere vincolato a una decisione della maggioranza non condivisa (c.d. diritto di exit), assicurandogli la corrispondenza del corrispettivo del disinvestimento della partecipazione al valore effettivo della propria quota.
Con riferimento alla determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso in favore del socio recedente, la voluntas legis espressa dall'art. 2473, comma 3 c.c. muove nel senso di una rimessione della liquidazione della quota a un accordo di natura negoziale tra socio recedente e società, ferma l’esperibilità, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le parti sul quantum, dell’iter non contenzioso del ricorso all’arbitratore nominato all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, ossia non già di una diretta determinazione giudiziale della quota, bensì di un’integrazione ab externo del contenuto del negozio ad opera di un terzo esperto e imparziale; laddove, invece, il ricorso alla giurisdizione contenziosa sarà ammissibile nei limiti della successiva ed eventuale impugnazione della perizia giurata dell’esperto, ma per fare valere i soli vizi di manifesta erroneità o iniquità ai sensi dell’art. 1349, co. 1, c.c.
L’art. 2469, co. 1, c.c., in tema di s.r.l., stabilisce la libera trasferibilità delle quote per atto tra vivi e a causa di morte, facendo salva una diversa disposizione dell’atto costitutivo. Quest’ultimo inciso normativo trova la sua estrinsecazione nelle clausole limitative della circolazione delle partecipazioni, nell’ambito delle quali deve certamente ricomprendersi la clausola di prelazione, la cui presenza nell’atto costitutivo obbliga il socio che voglia alienare la propria quota a offrirla agli altri soci, i quali avranno diritto di acquistarle alle medesime condizioni concordate con i terzi.
In presenza di una clausola statutaria di prelazione non dettagliata: 1) è necessario che la proposta contenga tutti gli elementi essenziali minimi del contratto di cessione di quote sociali; 2) al fine di stabilire se il soggetto passivo del rapporto di prelazione abbia l’obbligo di indicare anche il nome del terzo interessato all’acquisto, si deve ricorrere ai criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c., individuando le finalità che la clausola tutela, sì che l’indicazione del nominativo del terzo è da ritenere necessaria tutte le volte in cui la clausola di prelazione – alla stregua degli elementi del caso concreto forniti dal tipo sociale, dalla compagine societaria preesistente, dall’entità della percentuale da trasferire, ecc. – risulti posta anche a tutela dell’interesse del socio a influire, mediante la sua decisione se acquistare o no, sulla possibilità di ingresso in società di un soggetto a lui non gradito.
La denuntiatio, prevista dalla clausola di prelazione in caso di trasferimento delle quote di una società a responsabilità limitata, non si sostanzia dunque nella mera enunciazione della sola intenzione di vendere la propria quota, ma integra una vera e propria proposta contrattuale, che, come tale, deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto che si intende concludere.
L’atto di trasferimento delle quote eseguito in violazione della clausola di prelazione è inopponibile alla società.
L’art. 306 c.p.c. prevede che il processo si estingue per rinuncia agli atti del giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione; che le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti; che, pertanto, il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo.
L’inadempimento del contratto di cessione di azienda, dichiarato risolto ex art. 1453 c.c., può far sorgere, in capo alla parte non inadempiente, il diritto al risarcimento del danno secondo la disciplina della responsabilità contrattuale. Per la quantificazione del danno emergente, si può fare riferimento al valore attribuito convenzionalmente dalle parti all’azienda oggetto del contratto.
In materia di risoluzione del contratto di cessione di azienda per inadempimento ex art. 1453 c.c., spetta al creditore cedente la dimostrazione della fonte negoziale o legale del proprio credito e, se previsto, del relativo termine di scadenza, nonché l’allegazione dell’inadempimento del cessionario; spetta, invece, al debitore cessionario provare il fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto.
La presenza, nel contratto societario, di clausole compromissorie osta all’esaminabilità nel merito delle controversie che possano ritenersi ricomprese nel suo ambito applicativo, producendo il patto compromissorio, da un lato, un effetto positivo consistente nel conferire all’arbitro il potere di decidere la controversia in modo vincolante per le parti e, dall’altro, un effetto negativo consistente nell’impedire la cognizione della medesima controversia da parte dell’autorità giudiziaria.
La clausola statutaria che devolva in arbitri, tra l'altro, le controversie "relative ai rapporti tra società e i propri organi" deve ritenersi inclusiva, ratione subiecti e ratione obiecti, la controversia avente ad oggetto l'azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c., traendo essa titolo da pretesi fatti illeciti commessi ai danni della società dai relativi amministratori, di diritto e di fatto, e revisori per violazione delle regole di condotta sugli stessi incombenti in ragione dell’incarico e del ruolo svolto. Sebbene una clausola siffatta imponga, in effetti, il requisito dell’inerenza a diritti disponibili con espresso riguardo alle sole controversie tra soci o tra o soci e la società, senza nulla prevedere in proposito con riguardo alle ulteriori controversie devolute agli arbitri, non è superfluo comunque rammentare come, in linea astratta e di principio, nulla osti alla compromettibilità in arbitri delle azioni sociali di responsabilità, concernenti diritti definibili come disponibili, alla luce della loro rinunciabilità da parte della società.
In tema di responsabilità degli amministratori di società, ove la relativa azione venga proposta nei confronti di una pluralità di soggetti, in ragione della comune partecipazione degli stessi, anche in via di mero fatto, alla gestione amministrativa e contabile, tra i convenuti non si determina una situazione di litisconsorzio necessario, attesa la natura solidale della obbligazione dedotta in giudizio che, dando luogo ad una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, esclude l’inscindibilità delle posizioni processuali, consentendo quindi di agire separatamente nei confronti di ciascuno degli amministratori.