Ai sensi dell’art. 2473 c.c., il socio, ove non consenta alla deliberazione di scissione, ha «in ogni caso» diritto di recedere dalla società. Trattasi di una ipotesi di recesso che non può essere eliminata né dallo statuto né dalla deliberazione di scissione e ciò anche nel caso in cui la delibera di scissione preveda, in luogo del recesso, l’attribuzione al socio dissenziente di quote proporzionali nelle società di nuova costituzione.
In tema di cessione d’azienda (o di ramo d’azienda) la clausola che contiene un’esclusione pattizia della responsabilità della società cessionaria per i debiti relativi all'azienda trasferita dalla società cedente non vale ad escludere l’operatività della previsione di accollo ex lege dei debiti in capo alla società acquirente, sancita all’art. 2560 secondo comma c.c. Infatti, la pattuizione con cui si preveda l’obbligo in capo alla società trasferente di manlevare l'acquirente per le richieste di pagamento relative a debiti pregressi dell'azienda si atteggia a semplice clausola di regolamentazione dei rapporti interni tra cedente e cessionario, ma non consente di escludere la responsabilità di quest'ultimo nei confronti del creditore, valendo, semmai, ad evitare che all’accollo esterno ex lege corrisponda altresì un accollo interno dei debiti. Il creditore, dunque, può indifferentemente agire sia verso il cedente che verso il cessionario, a prescindere dalla presenza nell’atto di cessione d’azienda di eventuali pattuizioni contrarie.
Il presupposto dell’iscrizione del debito pregresso nei libri contabili obbligatori dell’azienda richiesto dall’art. 2560 c.c. ha il fine di contemperare l’esigenza di tutela dei creditori con quella di certezza dei rapporti giuridici. Tale iscrizione, da un punto di vista processuale, è elemento costitutivo essenziale della responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti ad essa inerenti, con la conseguenza che l’onere della prova di tale iscrizione ex art. 2697 c.c. spetta alla parte attrice e il mancato assolvimento di tale onere probatorio può essere rilevato anche d’ufficio dal Giudice.
La regola posta dall’art. 2475-bis, primo comma, c.c. costituisce una norma di default destinata ad assumere rilevanza nel silenzio dello statuto o dell’atto di nomina. Anche nelle società a responsabilità limitata, infatti, è possibile attribuire il potere di rappresentanza soltanto ad alcuni amministratori ovvero ricollegarla alla titolarità di alcune cariche (come la carica di amministratore delegato o di presidente del consiglio di amministrazione); ciò lo si può desumere dal fatto che tra le indicazioni che l’atto costitutivo deve necessariamente contenere rientrano quelle concernenti la rappresentanza della società (art. 2463 comma 2, n. 7 c.c.) e che l’art. 2383 comma 4 (richiamato dall’art. 2475 comma 2 c.c.) prevede che entro trenta giorni dalla notizia della nomina, gli amministratori devono chiederne l'iscrizione nel registro delle imprese indicando a quali tra essi è attribuita la rappresentanza della società, nonché – in ultimo – da quanto indicato all’art. 2475-ter c.c. dove nel menzionare gli «amministratori che hanno la rappresentanza della società» lascia desumere che possono esservi amministratori che non hanno detto potere in conseguenza di limitazioni poste dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina.
Le limitazioni statutarie - a differenza delle limitazioni legali - dei poteri rappresentativi degli amministratori non si riverberano in maniera automatica sul contratto sottoscritto dagli amministratori con i terzi, non essendo, se non nel concorso degli altri presupposti indicati dall’art. 2475-bis c.c., ad essi opponibili. Il fatto che un amministratore abbia sottoscritto un contratto eccedendo la propria limitazione del potere rappresentativo, può presentare conseguenze sul piano dei rapporti interni alla società, giustificando la revoca dell’amministratore dall’incarico gestorio ovvero la proposizione di una azione di responsabilità nei suoi confronti ovvero ancora, qualora nella società sia presente il collegio sindacale, la denunzia ex art. 2408 c.c.
Nel caso di violazione dei limiti convenzionali al potere rappresentativo degli amministratori nell’ipotesi descritta dall’ultima parte dell’art. 2475-bis secondo comma c.c. (ossia nel caso in cui il terzo contraente abbia intenzionalmente agito in danno della società) solo la società (e non, quindi, anche il singolo socio) è legittimata ad opporre ai terzi tali limitazioni. Ciò alla luce del fatto che nelle società di capitali, l’interesse del socio al potenziamento ed alla conservazione della consistenza economica dell'ente è tutelabile esclusivamente con strumenti interni alla società (rappresentati dalla partecipazione alla vita sociale e dalla possibilità di insorgere contro le deliberazioni o di far valere la responsabilità degli organi sociali) e non implica la legittimazione a denunciare in giudizio atti esterni ed, in particolare, ad impugnare i negozi giuridici stipulati dalla società, la cui validità, anche nelle ipotesi di nullità per illiceità dell’oggetto, della causa o dei motivi, resta contestabile solo dalla società stessa, senza che in contrario il socio possa invocare la norma dell'art. 1421 c.c
L’eventuale inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator di una società può essere fatta valere dal falso rappresentato, ma non dai soci di quest’ultimo qualora costituito in forma di società di capitali.
Il principio di postergazione legale esige il rispetto della preferenza dei terzi con la conseguenza che la soddisfazione degli altri creditori si pone come condizione sospensiva del diritto al rimborso, idonea, in particolare, a produrre l’effetto di prorogare ex lege la scadenza del finanziamento sino al momento di suo avveramento e ad impedire, in tal modo, l’esigibilità del credito del socio, la quale deve reputarsi sospesa sino alla soddisfazione degli altri creditori. Ciò posto, l’inesigibilità del credito derivante dalla postergazione legale impedisce necessariamente l’operatività della compensazione con il debito del medesimo socio derivante dall’aumento di capitale.
L’art. 2467 c.c. è ostativo all’operare tanto della compensazione legale, mancando il requisito della esigibilità di uno dei due crediti, quanto della compensazione volontaria, in quanto l’amministratore della società ha il dovere di opporre la postergazione del finanziamento del socio.
Incombe sulla società convenuta dal socio per la restituzione del finanziamento eccepire e provare in giudizio la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 2467 c.c.
È illegittima la delibera assembleare che, nel quadro di un’operazione di aumento di capitale scindibile, preveda in capo a un socio l’obbligo di sottoscrizione mediante conferimento in natura e, in mancanza di esercizio di tale diritto d’opzione, la possibilità per gli altri soci di esercitare la prelazione sull’inoptato. In tal caso, infatti, il socio verrebbe posto di fronte all’alternativa se perdere la proprietà del bene e mantenere intatta la propria partecipazione o perdere (o vedersi diluita) la propria partecipazione, mantenendo la proprietà del bene.
L’illegittimità della delibera che prevede una tale operazione non verrebbe inficiata da eventuali patti parasociali, dato che essi riguardano i rapporti tra soci e non possono, quindi, determinare il comportamento di questi ultimi verso la società.
La consistenza patrimoniale di una società, nell’ambito della cessione delle relative quote o azioni, rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta dal cedente. Pertanto, in difetto di tale garanzia, l’eventuale sussistenza di passività nel bilancio della società, le cui partecipazioni sono state oggetto di cessione, non assume alcuna rilevanza in ordine al rapporto negoziale tra le parti. Ne discende che tale circostanza non può essere validamente addotta dal cessionario per giustificare il mancato pagamento del prezzo delle partecipazioni acquistate.
Ai fini del rispetto del principio di continuità e completezza delle trascrizioni – il quale vuole che vengano iscritti tutti i mutamenti succedutisi nel tempo nella titolarità delle quote sociali, allo scopo di tutelare il legittimo affidamento dei terzi nei confronti del registro delle imprese – la domanda di iscrizione della cessione di singole frazioni di quote ereditarie presuppone non solo l’iscrizione del trasferimento mortis causa, ma altresì dell’atto divisionale che comporta l’assegnazione delle frazioni di quota a ciascuno dei condividenti e quindi delle modifiche nella titolarità e nell’esercizio delle situazioni soggettive che fanno capo ai singoli eredi. Mancando uno di questi atti sarà possibile disporre – ex art. 2191 c.c. – la cancellazione d’ufficio dal registro delle imprese dell’iscrizione dell’atto di trasferimento quote.
Il divieto per le PA di costituire società aventi per oggetto la produzione di beni e servizi (art.4 del D.lgs. 175/2016), non strettamente necessari al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, e di assumere e mantenere le partecipazioni in tali società, mira, da un canto, a rafforzare la distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione) ed attività di impresa di enti pubblici, dall’altro, ad evitare che quest'ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione ed evitare, quindi, che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, anche al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza.
La necessaria corrispondenza tra l’attività svolta dalla società e le finalità istituzionali dell’ente pubblico dev’essere riscontrata con riguardo non solo all’oggetto sociale, quale dedotto nell’atto costitutivo della società, ma anche all’attività che la stessa concretamente svolge, e deve sussistere tanto al momento della costituzione o dell’acquisto della partecipazione, quanto dopo la costituzione o l’acquisizione della partecipazione, essendo vietato all’ente pubblico non solo di acquistare ma anche di conservare partecipazioni azionarie estranee alle finalità istituzionali.
L’azione individuale spettante ai soci o ai terzi per il risarcimento dei danni ad essi derivati per effetto di atti dolosi o colposi degli amministratori rientra nello schema della responsabilità aquiliana e presuppone che i danni stessi non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano stati direttamente cagionati ai soci o terzi, come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori medesimi; tale azione individuale, pertanto, è rimedio utilmente esperibile solo quando la violazione del diritto individuale del socio o del terzo sia in rapporto causale diretto con l’azione degli amministratori. La riconducibilità della responsabilità ex art. 2395 c.c. allo schema della responsabilità aquiliana comporta che è sul socio che agisce che grava l’onere di allegare in maniera specifica e di provare a) la addebitabilità, agli amministratori, di omissioni e condotte in violazione degli obblighi specifici e dei doveri connessi alla carica rivestita; b) i pregiudizi patrimoniali diretti asseritamente subiti e, non ultimo, c) il nesso eziologico tra gli addebiti formulati ed i danni prospettati.
L’apporto del socio d’opera di società di persone non deve necessariamente essere “capitalizzato”, ovverosia valutato e conteggiato ai fini della determinazione della cifra di capitale sociale indicata nell’atto costitutivo, con la conseguenza che la mancata capitalizzazione dell’apporto di opera da parte del socio accomandatario di società in accomandita semplice non costituisce un presupposto per procedere alla cancellazione dal registro delle imprese né dell’iscrizione relativa all’ingresso dell’accomandatario nella compagine sociale né dell’iscrizione relativa alla ragione sociale della predetta società riportante il nominativo dell’accomandatario stesso. La capitalizzazione dei conferimenti
d’opera non è infatti necessaria né per garantire la parità di trattamento tra soci di capitale e soci d'opera, né per tutelare l'interesse dei
creditori sociali alla conservazione dei mezzi propri dell'impresa [nella specie il Registro delle Imprese contestava l'iscrizione di un atto di trasformazione da s.r.l. a s.a.s. ove il socio accomandatario non risultava avere effettuato alcun conferimento per l'ingresso nella società in accomandita].
Per quanto riguarda i debiti sociali, la responsabilità dei liquidatori si fonda sulla prova di due presupposti: uno oggettivo, relativo al mancato pagamento del debito; uno soggettivo, consistente nella riconducibilità del mancato pagamento al comportamento doloso o colposo dei liquidatori, per cui la lesione dei diritti dei creditori si sostanzia nel mancato adempimento, con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico, dei doveri legali e statutari. Resta fermo che la responsabilità del liquidatore - che ha natura di responsabilità extracontrattuale per lesione del diritto di credito del terzo - deve essere esclusa quando il mancato pagamento del debito sociale non dipenda dal mancato inserimento di quest'ultimo nel bilancio finale, quanto piuttosto dalla mancanza di qualsiasi risorsa economica necessaria per poter procedere al pagamento.
In ordine al regime probatorio, ricade in capo al creditore che agisca in giudizio al fine di far valere la responsabilità del liquidatore l'onere probatorio in relazione all'esistenza del credito, all'inadempimento da parte della società e, in particolare, alla condotta dolosa o colposa del liquidatore, oltre al nesso di causalità con il mancato soddisfacimento del credito.
I presupposti per la postergazione dei finanziamenti dei soci ex art. 2467 co. 2 c.c. devono essere ricondotti ad un’unitaria nozione definibile quale “rischio di insolvenza” dante luogo ad un concorso potenziale tra tutti i creditori della società. In particolare, tale interpretazione unitaria del secondo comma appare preferibile in quanto, da un lato, assicura oggettività al primo parametro normativo (“eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio”) altrimenti di opinabile lettura anche alla luce delle scienza economiche e, d’altro lato, chiarisce il significato sempre oggettivo del secondo parametro normativo, ove il riferimento a “situazioni finanziarie nelle quali sarebbe stato ragionevole un conferimento”, implica il rinvio a un comportamento ragionevole (vale a dire standardizzato, socialmente tipico) non tanto del socio quanto del terzo finanziatore, il quale, appunto, in presenza di una crisi dell’impresa, non sarebbe normalmente disposto a finanziarla.
Inoltre, la postergazione legale, prevalendo sul regolamento negoziale, esige il rispetto della preferenza dei terzi con la conseguenza che la soddisfazione degli altri creditori si pone come condizione sospensiva del diritto al rimborso, idonea, in particolare, a produrre l’effetto di postergare ex lege la scadenza del finanziamento sino al momento del suo avveramento e ad impedire in tal modo l’esigibilità del credito del socio la quale deve reputarsi sospesa sino alla soddisfazione degli altri creditori.
Costituisce questione di interpretazione della volontà negoziale delle parti stabilire se il versamento effettuato dai soci tragga origine da un rapporto di mutuo o se invece esso sia stato effettuato a titolo di apporto del socio al patrimonio di rischio dell'impresa collettiva (configurandosi, in tale ultima ipotesi, un contratto atipico di conferimento di capitale qui inteso come capitale di rischio in senso economico); nel qual ultimo caso il diritto alla restituzione, prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società, sussiste solo qualora il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla mancata successiva deliberazione assembleare di aumento del capitale nominale della società e tale deliberazione non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice.