L'azione volta a far valere la responsabilità degli amministratori (e dei sindaci) non va proposta necessariamente contro tutti i sindaci e gli amministratori, ma può essere intrapresa contro uno solo o alcuni di essi, senza che insorga l'esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell'autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido.
Anche in caso di fallimento di una s.r.l., il curatore ha la legittimazione a esercitare l'azione di responsabilità dei creditori sociali.
L'eccezione di prescrizione opposta da alcuni dei condebitori solidali non opera automaticamente a favore degli altri, avendo costoro, al fine di potersene giovare, l'onere di farla esplicitamente propria e, quindi, di sollevarla tempestivamente.
L'azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c. c. promossa dal curatore fallimentare è soggetta a prescrizione che decorre dal momento dell'oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall'effettiva conoscenza di tale situazione), che, a sua volta, dipendendo dall'insufficienza della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d'insolvenza di cui all'art. 5 l. fall., derivante, "in primis", dall'impossibilità di ottenere ulteriore credito. In ragione della onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione "iuris tantum" di coincidenza tra il "dies a quo" di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando pertanto all'amministratore la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.
Il terzo che abbia partecipato alla realizzazione di una operazione dissennata e dissipatoria del patrimonio sociale risponde in solido con l'amministratore del danno derivato ex art. 2043 c.c..
La nozione di amministratore di fatto (prevista, per gli illeciti penali, dall’art. 2639 c.c.), postula l’esercizio in concreto ed in modo continuativo delle attività di gestione inerenti alla qualifica: tali attività non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono un esercizio a carattere sistematico che non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale.
L’azione di responsabilità esercitata nei confronti di più amministratori - tra i quali solo alcuni risultano formalmente amministratori della società al momento della dichiarazione di fallimento - presuppone , in primo luogo, l’accertamento del ruolo assunto da ciascun amministratore nei diversi periodi rilevanti ai fini dell’imputazione degli addebiti formulati dalla curatela. Il fatto che l’amministratore prendesse ordini ed istruzioni da un altro amministratore nell’esecuzione degli atti gestori non elide affatto la sua responsabilità, derivante dalla indispensabile cooperazione prestata nella conduzione dell’attività amministrativa e gestoria.
La responsabilità contrattuale dell’amministratore nei confronti della società presuppone la sussistenza di comportamenti tenuti dall’amministratore in violazione di specifici obblighi (derivanti dalla legge e dallo statuto), nonché la dimostrazione che ne sia derivato un pregiudizio nella sfera giuridica della società e che tale pregiudizio sia casualmente e logicamente connesso all’illecito prospettato. Tale responsabilità non è, infatti, configurabile in termini semplicemente sanzionatori della condotta illecita prospettata attraverso la concezione di una sorta di danno “punitivo”, sganciato nella sua determinazione della effettiva dimostrazione della natura e consistenza del pregiudizio che dall’illecito sarebbe derivato alla società.
La semplice violazione da parte dell’amministratore dell’obbligo di regolare tenuta delle scritture contabili , condotta di per sé inidonea a determinare un materiale pregiudizio nella sfera patrimoniale della società, non giustifica l’imputazione all’amministratore inadempiente della responsabilità per il dissesto e non è , quindi, sufficiente a fondare la pretesa del fallimento di pagamento della somma corrispondente alla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare , come se si trattasse di una misura sanzionatoria della violazione. [fattispecie relativa a fatti verificatisi anteriormente all’introduzione del terzo comma dell’art. 2486 c.c., disposta dall’art. 378, comma 2, D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14]
È legittimato il terzo, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell’azione (di natura aquiliana) ex art. 2395 c.c. per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l'azione contrattuale di cui all'art. 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell'art. 146 della legge fall.
Risulta applicabile la disciplina di cui all'art. 2395, benché dettata con riferimento agli amministratori di Spa, anche nel caso di analoghe azioni promosse dal socio o dal terzo nei confronti di amministratori (ancorché cessati) di altri tipi di società, ivi comprese quelle di persone.
Ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all'art. 2393 c.c. non è richiesto un comportamento degli amministratori volontariamente diretto contro i singoli soci o i terzi, ma l’esistenza di un danno patrimoniale subito direttamente da parte di costoro in conseguenza di atti dolosi o colposi degli amministratori, assumendo rilievo il profilo psicologico come espressione della mera volontarietà dell’atto illecito ovvero come mancata attenzione e diligente cura nel compiere -o nel non astenersi dal compiere- un atto contrario alla legge o all'atto costitutivo.
In tema di azione individuale spettante al terzo (o al socio) di cui all'art. 2395 c.c. è richiesta la prova in base a conferente allegazione che costui abbia sofferto un danno diretto al proprio patrimonio o più in generale alla propria sfera giuridico-patrimoniale, in conseguenza della condotta dolosa o colposa degli amministratori. Ove viceversa il danno incida sul patrimonio sociale il pregiudizio per il singolo socio o per il singolo terzo è solo un effetto indiretto e riflesso del danno alla società e si è pertanto al di fuori della previsione in oggetto. Nello specifico, costituiscono condotte in relazione alle quali difetta il carattere del danno diretto p.es. quelle degli amministratori che abbiano impedito il conseguimento di utili ovvero abbiano danneggiato il patrimonio della società e reso impossibile la liquidazione delle quote sociali.
È irrilevante che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell'esercizio delle loro funzioni e nello svolgimento dei loro incarichi ovvero al di fuori delle loro incombenze ed è altresì irrilevante la circostanza che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto nell'interesse della società o a vantaggio della stessa; infatti la formulazione dell’art. 2476, 6° comma, c.c. dimostra che, ai fini della sua applicazione, rileva esclusivamente l’incidenza diretta del danno, ascrivibile agli amministratori, sul patrimonio o sulla sfera personale dei singoli soci o dei terzi.
La riscontrata lacuna in ordine all'allegazione e prova di precisi elementi oggettivi, da cui desumere l’esistenza stessa del danno risarcibile, non può essere colmata ricorrendo all'equità, che infatti non può mai equivalere ad arbitrio da parte del Giudice: l’equità soccorre quando è difficile o impossibile l’esatta monetizzazione del danno, ma presuppone pur sempre la prova, in base a conferente allegazione, degli elementi costitutivi del danno stesso, oltre che dell’altrui responsabilità.
È responsabile verso la società per violazione dell’obbligo di diligenza l’amministratore che, all’atto della nomina, ometta di comunicare l’esistenza di precedenti penali a proprio carico, quando questi ultimi precludano di diritto alla società stessa di partecipare a bandi di gara per le attività da essa stessa svolte in via principale (prestazione di servizi a pubbliche amministrazioni).
La società è tenuta ad allegare l’inadempimento dell’amministratore agli obblighi di carica, nonché a provare il danno attuale e concreto cagionato al patrimonio sociale, mentre grava in capo all’amministratore convenuto l’onere di dimostrare l’avvenuto adempimento.
In caso di azione di responsabilità promossa dalla s.r.l. nei confronti dell'ex amministratore delegato - cui è contestato il compimento di spese ingiustificate, il godimento di rimborsi spese maggiorati e la distrazione di somme nell'ambito di diverse operazioni, nonché l'emissione di false fatturazioni passive - , nella quantificazione del danno risarcibile va posta in compensazione la maggior somma dovuta all'ex amministratore ad integrazione del compenso già ricevuto perché il rapporto organico con la società deve rivestire rilievo prioritario rispetto ad accordi intercorsi fra amministratori sul criterio di calcolo della remunerazione (nella specie, nel cd. employment agreement era stato pattuito un compenso inferiore rispetto a quello deliberato dall'assemblea).
In tema di azione di responsabilità sociale, trattandosi di responsabilità contrattuale, valgono i canoni generali sul riparto dell'onere della prova e, dunque, spetta all'attore (la società) allegare l'inadempimento - ovvero il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto - e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere del convenuto (l'amministratore) contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell'esatto adempimento.
La disposizione dell’art 2479, co. 1, c.c. che prevede la facoltà per tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale di convocare l’assemblea sociale, prevale su eventuali previsioni statutarie difformi che riservino al solo amministratore il potere di convocare l’assemblea. Tale potere è implicito nella facoltà attribuita ai soci dal medesimo articolo di individuare argomenti da sottoporre alla collettività sociale.
L’amministratore di s.r.l. non ha un diritto al mantenimento dell’incarico, giacché può essere revocato in qualunque tempo e ad nutum. Tuttavia deve essere riconosciuto all’amministratore revocato il potere di far valere la violazione della procedura seguita per l’adozione della delibera contenente la sua revoca, qualora non adottata in conformità alla legge e allo statuto. In simili circostanze l’amministratore può far valere eventuali profili formali di invalidità, essendogli invece preclusa qualsiasi contestazione in ambito sostanziale.
Qualora un soggetto, socio e amministratore di una s.r.l., sia convenuto in giudizio in qualità di amministratore per l’accertamento di una sua eventuale responsabilità ex art. 2476 c.c., è manifestamente infondata l’eccezione di incompetenza territoriale per mancato esperimento della causa avanti il foro di cui all’art. 23 c.p.c., atteso che (altro…)