Dopo l’entrata in vigore del Codice del terzo settore, un ente che non ha inteso “trasformarsi” in associazione nonostante la facoltà in tal senso concessa dall’art. 43 c.t.s., in base a quanto previsto dall’art. 42 c.t.s, quale società di mutuo soccorso continua ad essere disciplinato dalla legge 15 aprile 1886, n. 3818, e successive modificazioni. Per tutto quanto non previsto da tale legge, si applicano le norme del Codice civile in materia di società di capitali e ciò anche in forza del richiamo attuato dal secondo comma dell’art. 3 c.t.s. Per colmare i vuoti normativi, non è alla disciplina delle associazioni e fondazioni che bisogna fare riferimento, bensì alla disciplina che il Codice civile dedica alle società e, quanto al profilo specifico relativo alla composizione del collegio sindacale, all’unica norma che affronta questo tema, ossia l’art. 2397 c.c., senza che ciò comporti alcuna assimilazione delle società in esame alle società cooperative, che a loro volta attingono alla medesima disciplina. Sia l’art. 2397 c.c. sia, per le società a responsabilità limitata, l’art. 2477 c.c. il cui comma 4 richiama l’art 2397 c.c., prevedono che i membri dell’organo di controllo devono essere scelti fra gli iscritti negli albi professionali individuati con decreto del Ministro della Giustizia o fra i professori universitari di ruolo in materie economiche o giuridiche; entrambi gli articoli sono norme non derogabili.
I poteri ispettivi di cui all’art. 2476 c.c. sono diretti ad assicurare al socio che non partecipi all’amministrazione un adeguato controllo in relazione alla gestione della società, controllo che può essere esercitato sino a quando la stessa esista, senza che sia, dunque, ravvisabile alcun ostacolo nel fatto che quest’ultima sia in fase di scioglimento e di liquidazione. Pertanto, anche attesa l’applicabilità delle norme relative alla responsabilità dell’organo amministrativo ai liquidatori (art. 2489 c.c.), non pare potersi revocare in dubbio che il socio possa esercitare il suo potere ispettivo, onde verificare la gestione della società, anche durante la fase di liquidazione.
L’art. 2476, co. II, c.c. attribuisce un vero e proprio diritto potestativo del socio di accesso a tutti i documenti relativi all'amministrazione della società, limitato soltanto dal rispetto dei principi di correttezza (ex art. 1176 c.c.) e buona fede (ex art. 1375 c.c.). Quanto all’estensione della facoltà di accesso alla documentazione sociale, il potere di controllo della gestione sociale è attribuito al socio non amministratore dall’art. 2476 comma II c.c. mediante il riconoscimento del diritto potestativo ad avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e del diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione, ivi compresa la documentazione contrattuale, trattandosi di un potere di controllo non solo sull’andamento generale della gestione sociale ma anche su singoli affari.
Il diritto di accesso si estende, quindi, a tutta la documentazione contrattuale, anche eventualmente a quella contenuta nella corrispondenza che l’amministratore ha l’obbligo di conservare pure al solo fine di consentire ai soci la verifica della correttezza della sua gestione, ma non può spingersi a ricomprendere la pretesa della formazione di appositi documenti di rendiconto nell’ipotesi della mancata conservazione dei documenti relativi a singoli affari o della loro mancata e incompleta contabilizzazione. Il diritto del socio di avere accesso alla documentazione sociale ex art. 2476, co. 2, c.c. è un diritto esercitabile senza che lo stesso sia onerato di dimostrarne l’utilità rispetto alla soddisfazione di un suo specifico interesse ed è tutelabile in via d’urgenza con riferimento all’esigenza di attualità del controllo rispetto alle vicende sociali.
La cancellazione di una società dal registro delle imprese, con conseguente estinzione della medesima, intervenuta dopo la costituzione in giudizio, costituisce un evento interruttivo del processo ai sensi dell'art. 300 c.p.c.; pertanto, l'azione giudiziaria intrapresa dalla società estinta ovvero esercitata contro la medesima è inammissibile.
La responsabilità extracontrattuale del liquidatore in relazione al mancato soddisfacimento delle ragioni dei creditori a norma dell'art. 2495, comma 3, c.c. esclude che questi possa subentrare nella titolarità di un rapporto giuridico-obbligatorio altrui.
Ai fini della concessione del sequestro conservativo: (i) il requisito del fumus boni iuris ricorre quando sia accertato, con un’indagine sommaria, la probabile esistenza del credito, restando riservata al giudizio di merito ogni altro accertamento in ordine alla sua effettiva sussistenza ed al suo ammontare; (ii) il requisito del periculum in mora è desumibile, alternativamente, sia da elementi oggettivi, che riguardano l’inadeguatezza della consistenza del patrimonio del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore, i quali lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, egli possa compiere atti dispositivi idonei a provocare il depauperamento del suo patrimonio.
Non può qualificarsi "danno" il maggiore importo dovuto alla luce della diversa qualificazione del rapporto di lavoro [come dipendente e non collaboratore a progetto], dato che tale è la somma che la società avrebbe comunque dovuto versare ab initio. Danno può ravvisarsi nelle sanzioni e negli interessi che maturano in ragione del fatto che la gestione ha portato al mutamento del rapporto in concreto e che la regolarizzazione è stata tardiva.
Per giungere a censurare un amministratore non delegato occorrerebbe poter dire quale segnale di allarme avrebbe avuto tale da suscitare in lui il sospetto che qualcosa nella conduzione dei rapporti con i collaboratori da parte del consigliere all'uopo delegato non fosse come i relativi contratti – formalmente coerenti con la qualifica – ma fosse tale da trasformare il rapporto in subordinato, con conseguenti diversi e maggiori oneri contributivi.
Perché si possa applicare il regime della postergazione le condizioni di cui all’articolo 2467 devono sussistere al momento in cui vengono posti in essere gli atti costitutivi del finanziamento – o comunque dell’operazione generativa di credito del socio.
É legittimo che i soci di società cooperativa definiscano tra loro – mediante specifico regolamento – i rapporti inerenti le spese di gestione dell’ente, ponendo queste ultime soltanto a carico di una categoria specifica di soci [nella specie: soci operativi; a differenza dei soci non operativi, con funzioni meramente tecnico amministrative e, in quanto tali, esentati dalle spese in oggetto].
Nei rapporti di credito tra la società e i soci trova applicazione il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c..
Ai sensi dell’art. 2487, comma 2, c.c. il tribunale può provvedere alla convocazione dell’assemblea perché deliberi sulla liquidazione della società, quando la convocazione sia omessa dagli amministratori, e può nominare i liquidatori, quando l’assemblea non si costituisca o non deliberi. L’intervento sostitutivo dell’autorità giudiziaria è dunque previsto per specifiche ipotesi di “stallo” del procedimento di liquidazione e al di fuori della situazione di stallo l’esercizio surrogatorio di funzioni proprie dell’assemblea è estraneo alla lettera e alla funzione della norma. Non induce a diverse conclusioni l’urgenza di provvedere ad adottare adeguati strumenti di risoluzione della crisi dell’impresa, posto che l’urgenza di atti di gestione non è una situazione di stallo assembleare e non può essere ricondotta alla previsione di cui all’art. 2487 comma 2 c.c.
La ratio dell’art. 2557 cod. civ. è assicurare che il contratto di trasferimento d’azienda realizzi appieno le finalità economiche normalmente perseguite dalle parti, consentendo all’acquirente di subentrare nella titolarità di un’azienda corrispondente a quella gestita dall’alienante, caratterizzata da una certa organizzazione e dall’esistenza di determinati rapporti con fornitori, finanziatori e clienti.
Il rispetto del principio di relatività degli effetti contrattuali ed il divieto di imporre ai soci sacrifici ulteriori rispetto al conferimento, non prevedibili al momento dell’ingresso in società, richiedono che l’identificazione del “soggetto alienante” in senso sostanziale, gravato dal divieto di concorrenza, debba basarsi sul “consenso” prestato dal singolo socio all’operazione di cessione: “consenso” che sarà normalmente ravvisabile in capo al socio o ai soci che detengono il controllo della società, dato che la vendita dell’azienda sociale non può che realizzarsi, nelle società di capitali, con l’approvazione, assembleare o extra-assembleare, di coloro che, rappresentando la maggioranza del capitale sociale, dispongono dei voti necessari per nominare gli amministratori e hanno il potere di influenzare concretamente la gestione strategica dell’impresa. Mentre in nessun caso il socio dissenziente o comunque rimasto estraneo alla definizione delle condizioni dell’operazione di dismissione dell’azienda può essere vincolato ad un obbligo di non concorrenza imposto dagli altri soci che, a maggioranza, abbiano deciso l’operazione. Il bilanciamento tra l’interesse dell’acquirente alla salvaguardia dell’avviamento dell’azienda e quello dei soci della società alienante a non essere vincolati uti singuli ad obblighi ulteriori e diversi rispetto a quelli stabiliti nel contratto sociale deve pertanto essere realizzato muovendo dal rilievo che, in base al principio di buona fede, possono considerarsi sottoposti all’obbligo di non concorrenza assunto dalla società esclusivamente i soci che (i) abbiano deciso, autorizzato o comunque in qualsiasi forma prestato la loro adesione alle condizioni dell’operazione di cessione, assumendo la qualità di parti in senso sostanziale del contratto, e che (ii) per la posizione rivestita nell’organizzazione aziendale siano concretamente in grado di esercitare una concorrenza differenziale.
Non vi è dubbio che il rappresentante comune degli obbligazionisti possa e debba esercitare tutti e soli i poteri di cui all’art. 2418 c.c., ma è anche corretto ritenere che tra questi sia ricompreso il potere di chiedere la consegna dei titoli rappresentativi del prestito azionario, che è certo un aspetto della tutela degli interessi comuni degli obbligazionisti (siano essi uno o più).
Nei procedimenti di volontaria giurisdizione relativi all’accertamento dello stato di scioglimento di società di capitali, legittimati passivi non sono solamente i soci ma anche i componenti dell’organo amministrativo (o l’amministratore unico).
Si configura la causa di scioglimento di cui all’art. 2484, comma 1 n. 3, c.c. nel caso in cui l’assemblea risulti – anche di fatto – non funzionante da tempo, restando in ogni caso irrilevante l’astratta esistenza di ulteriori rimedi che, nel medesimo arco di tempo, sono rimasti inattuati, non dovendo questi essere necessariamente esperiti in via preliminare.
Per l’accoglimento dell’azione di responsabilità dell’amministratore per danni cagionati ai creditori sociali ex art. 2476 c.c. si richiede che il creditore dimostri la commissione di azioni od omissioni che abbiano arrecato pregiudizio all’integrità del patrimonio sociale e lo abbiano reso insufficiente al soddisfacimento del credito. Il risultato negativo di esercizio o l’insufficienza del patrimonio sociale non sono conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili o della non veridicità del bilancio, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione. L’amministratore deve sì dare conto di tale atto di gestione nelle scritture contabili e nel bilancio di esercizio, ma laddove ometta tale rilevazione non è necessariamente detto che sussista una perdita di gestione né che quest’ultima, laddove esistente, dipenda dall’irregolarità della tenuta dei registri contabili e della documentazione che l’impresa ha l’obbligo di conservare. In quest’ottica, è onere del creditore che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente e dimostrare l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, l’esistenza di tale atto, il suo carattere doloso o colposo e la sussistenza del danno al patrimonio sociale e la conseguente insufficienza di quest’ultimo a soddisfare le ragioni creditorie. Similmente, per configurare una responsabilità per la mancata attivazione di procedure concorsuali è necessaria una specifica allegazione della sussistenza dei presupposti per l’accesso a rimedi previsti dalla legge fallimentare e/o dal codice della crisi d’impresa ovvero una specifica individuazione della procedura concorsuale a cui la società avrebbe potuto accedere.
La responsabilità del liquidatore ex art. 2495 c.c. è una responsabilità extracontrattuale, che presuppone la dimostrazione da parte del creditore: a) della sua qualità; b) della violazione da parte del liquidatore dei doveri impostigli dalla legge o dallo statuto; c) della sussistenza della colpa e del dolo; d) del nesso di causalità tra la condotta illecita e il danno asseritamente sopportato. Per configurare una responsabilità del liquidatore, pertanto, è necessario che il creditore ricorrente dimostri che in fase di liquidazione la società era sufficientemente capiente per soddisfare del tutto o in parte il credito di cui è titolare e che lamenta non essere stato saldato dal liquidatore oppure che il liquidatore ha tenuto una condotta dolosa o colposa, commissiva o omissiva, con la quale non ha recuperato o conservato del patrimonio attivo anche nell’interesse dei creditori, quali ad esempio il compimento di atti distrattivi o dissipativi o il pagamento di creditori in violazione della par condicio creditorum.